Una storia d’amore

Nevica da un cielo sconvolto da vapori di zolfo e pietre leggere. Nevica ma non si vede. I fiocchi s’impastano all’energia sparata dai Monti della Ruina: la neve mischiata alla terra per aria, e il cielo al suolo senza peso, come in un sogno. Sembra la giostra impazzita degli opposti, ma è il contrario: sono cristalli della stessa madre, figli di uno stesso pensiero di vita.

E’ ancora inverno, qui al villaggio di Mompileri, sul fianco meridionale dell’Etna. Ed è quasi sera. Tra un po’, alla fine di questo 12 di marzo 1669, cambierà sia lo spazio che il tempo. La notte sarà il futuro del giorno, e la colata in discesa da Nicolosi, che non c’è più, il nuovo orizzonte per noi.

Io sono Michele, non importa quanti anni ho, perché voglio raccontare questa storia per quello che sento. E voi sapete bene che i sentimenti non hanno nulla a che fare con l’età.

Nevica, dicevo. Io adesso riesco a contare i fiocchi uno ad uno, ma quella sera non si scorgeva manco il cielo. Di quanto rumore c’era, credo che il cielo stesso se ne fosse andato, lasciando il posto alla paura. Le esplosioni non avevano ricarica: era un rullo costante di rosso e nero puntati a Dio, che osservò e non si mosse. Venne la lava e coprì ogni casa, stalla, stazzo, perfino la chiesa. Anche la chiesa.

Io rimasi a guardare il mio mondo cancellato. Mi sentii come la mia terra: fermo, ricoperto di terrore nero. Il mio villaggio, Mompileri, era scomparso. Il nuovo orizzonte era stato spostato in alto di dieci metri. Più vicino a Dio, che però non sentivo. 

Graziella mi afferrò la mano.

“Sbrigati, Michele! Andiamo, corri!”

Non mi opposi, non dissi una parola, che le avevo dimenticate lì sotto, a casa mia. Corsi assieme a lei. Eravamo due ragazzini. Avevo assaggiato il suo sapore, un giorno sotto il sole tiepido di febbraio, seduti su un muretto di pietra lavica. Le pecore brucavano, non si muoveva una foglia, e manco il silenzio calmo poteva intuire il tumulto che stava accadendo. Non parlo della Muntagna scassata, ma del mio cuore. Scassato, aperto, per la prima volta. Ma forse, ora capisco che il principio è uguale, come i cristalli di neve e quelli di lava.

“Che c’è, Michele?! Perché non parli?”

Non mi uscì fuori più una parola. Sepolte anche loro. Il mio limite era stato sovrastato dalla colata. Le lasciai lì sotto e non pensai più agli aggettivi, ai nomi, ai verbi, eccetera. Andai a cercare di me altro, qualcosa che sapesse d’infinito, che nessuna colata potesse mai seppellire. E cominciai a sentire. Percepire. Provare. Reagire. Il silenzio non come rifugio, ma somma di tutto, come il bianco è il mazzo di tutti i colori.

Con le pecore, ci fischiavo e tiravo pietre per traiettorie precise. Con Graziella, ci capivamo con un’espressione, o un’inclinazione di collo, una strizzata di sguardo, uno sfioramento, o uno spazio d’aria in più. Lei, ostinata, provò all’inizio a ripetermi davanti agli occhi tutte le parole che conosceva. Ma non ero sordo. E così, lasciò perdere e dopo, anzi, ci prese gusto. Divenne il nostro codice. Divenni bravissimo e forte. E dopo alcuni anni ci sposammo nella nuova chiesa di Nicolosi.

Ma i figli non arrivavano. E Graziella s’immusonì, perdendo il suo buon umore.

“E’ perché non parli”

Che c’entra? – le domandai nel nostro codice.

“Se non parli, come fai a pregare di avere discendenza?”

In effetti, io non pregavo affatto. Nemmeno col pensiero, da quando Dio, la sera del 12 marzo del 1669, si era voltato dall’altra parte dell’Universo.

Sul finire di una calda notte di metà agosto dell’anno 1704, Graziella mi svegliò bruscamente.

“Ho sognato la Vergine Maria, che mi ha indicato il posto preciso di dove si trova la statua della vecchia chiesa sepolta dalla lava”.

L’aurora stava sbiadendo le stelle a oriente, lei mi prese per mano e mi condusse con fermezza nel mezzo della sciara viva, un deserto scuro e mosso senza riferimento.

“Ecco, è qui. Scava”.

Come: scavo. Che significa?

“Scava, Michele. Io da qui non mi muovo, finché dalla sciara non sarà uscita fuori la statua della Vergine”.

Non mi bastò il piccone. Non mi bastò quel giorno. Chiamai i cavatori, che si organizzarono in squadra e bucarono la sciara in verticale, seguendo l’indice di Graziella, che da lì non si spostò. Li convinsi che se non avessero trovato la statua, li avrei comunque ricompensati di due pecore.

L’avevo scrutata negli occhi, Graziella, nelle ombre serie delle labbra, nelle dita ferme; non c’erano parole adatte per descrivere la sua sensazione di certezza: solo sentire come lei. Io c’ero. Con lei.  

Al terzo giorno, nel primo pomeriggio dopo la pausa, la breccia fu lieve. La roccia cedette e si riversò di lato, quasi per rispetto. Un imbuto di luce portò i colori sulla corona delle statua, che teneva, alto al di sopra di sé, il ventre della colata. La lava non l’aveva seppellita, ma protetta: una cupola esatta a custodia della Vergine Maria.

Il18 agosto dell’anno 1704 si chiudeva in una sera d’incanto, in cui sparì la fatica dei cavatori, l’attesa inespressa della gente di Mompileri, che accorse tutta ai bordi del pozzo, e due altre cose accaddero. Graziella si sciolse in lacrime di gioia e perse i sensi. Io la tenni ferma sulle mie braccia fin quando, piano, le sussurrai parole vecchie, ritrovate, piccole, da ragazzini.

Quando rinvenne, mi guardò e mi fece capire di voler sentire daccapo quei suoni piccoli, ripresi. “Sentivo le tue parole, ed era così dolce e inaspettato, che mi pareva un sogno”, mi disse.

“Michele, non hai dubitato di me?”.

“No, mai”

“Non mi hai preso per pazza?”

“No, mai”

Poi la statua divenne il centro spirituale del nuovo santuario, posta sull’altare maggiore, e prese il nome di Madonna della Sciara.

Poi il corpo di Graziella non seguì più la luna e cambiò forma per ospitare nostro figlio. Subito dopo la nascita, la luna andò via per sempre.

Allora, io credo che Dio quella volta non si sia voltato dall’altra parte dell’Universo, ma abbia lasciato fare al mondo la sua storia. Credo che solo dopo l’inverno, spuntano daccapo i fiori. E credo soprattutto una cosa: che la speranza non viene sempre dal cielo, a volte è proprio la terra che dobbiamo guardare. Adesso voi potete pensare che questa storia, di Michele e Graziella, sia inventata. E che io non esista. Ma se vi siete emozionati un attimo, se avete intuito di toccare qualcosa che sappia d’infinito, allora è proprio una storia d’amore. Che non può esistere, lo sapete bene, senza immaginazione.

Sergio Mangiameli è del ’64, geologo, giornalista pubblicista, interprete naturalistico, vive sull’Etna. Ha pubblicato i racconti “Dall’ulivo alla luna” (Prova d’Autore, 1996) e “Rua di Mezzo sessantasei” (Il Filo, 2008), i romanzi “Aspettando la prima neve” (Rune, 2009), “Dietro a una piuma bianca” (Puntoacapo, 2010), “Sul bordo” (Puntoacapo, 2013), “Come la terra” (Villaggio Maori, 2015, che ha partecipato a MontagnaLibri 2016 del Trento Film Festival), “Quasi inverno” (A&B Editrice, 2018), "La nevicata perfetta" (A&B Editrice, 2020). Ha scritto i testi di “MicroNaturArt – voci dal microcosmo” (Arianna, 2014), esperimento letterario di fotografia scientifica; i racconti di “Ventiquattr’ore – fotografie di finestre e parole intorno” (Puntoacapo, 2016), i cui scatti sono di Lino Cirrincione; e, assieme al vulcanologo Salvo Caffo, “Etna patrimonio dell’umanità, manuale raccontato di vulcanologia e itinerari” (Giuseppe Maimone Editore, 2016), con le illustrazioni di Riccardo La Spina. Ha scritto i testi dei film corti “La corsa mia” e “Idda”, e i monologhi “Questa storia” e “Il gioco infinito”, visibili entrambi su YouTube. Sul portale web Etnalife, scrive racconti etnei per la rubrica letteraria “Storie dell’altro mondo”. “La piuma bianca” è il suo blog sul magazine online SicilyMag. L’esperimento nuovo è “Le colate raccontate” – vulcanologia storica dell’Etna e narrativa surreale insieme, tra esattezza scientifica e finzione letteraria in racconti –, portato in scena col vulcanologo Stefano Branca.
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