Santo Paternostro, la fuga

Passarono un bel po’ di anni, dopo quella sera d’inverno della non-nevicata elegante a Tremestieri, senza che di Santo Paternostro si leggesse traccia, nemmeno a spiare nelle ore più improbe gli incontri più riservati d’a Signura. Qualcuno, però, mise in giro la voce che Santo non si trovasse in un luogo così distante come il suo silenzio facesse immaginare. Tuttavia furono soltanto voci, per nulla provate.
Una sera d’estate degli inizi degli anni’80, un gruppo di ragazzi stazionava su un muretto di una contrada tra Pedara e Nicolosi. Le ragazze erano già andate via e, non sapendo come passare il tempo, presero a sparare minchiate (il gergo dell’epoca era questo, e se l’autore si prende la responsabilità di veridicità integrale riportata, tuttavia ci tiene a non confondere che l’inelegante espressione utilizzata sia di suo assoluto gradimento): a chi la diceva più grossa, da far ridere anche la Luna. Si raccontavano storie dell’altro mondo – a crederci davvero!
Quando a un tratto, Quello-col-naso-più-grande disse a Quello-più-alto-di-tutti: perché non lo facciamo?
Dici?
Sì.
Quando?
Ora.
A Quello-più-alto-di-tutti s’illuminò il viso: Ho il Transit! – disse con un alone di magia.
Questa parola fu quella d’ordine. Voleva significare che il rosso, sfiancato furgone Ford Transit, quella sera d’estate non si trovava nel garage di Piano Tavola, dove suo padre lo rimessava d’abitudine. Ma a Pedara. E i suoi genitori erano fuori casa.
I ragazzi smobilitarono l’ozio lunare secondo una collaudata rapidità miliziana, tipica di una squadra speciale. Ognuno di loro seppe esattamente cosa fare, con l’aggiunta adrenalinica dell’entusiasmo.

Dopo quindici minuti, si ritrovarono tutti e quattro dentro il Transit diesel rosso consunto, che si dirigeva lentamente verso le villette tra Pedara e Trecastagni. Alla guida, c’era Quello-più-alto-di-tutti; al centro Quello-grosso; a destra Quello-col-naso-più-grande, e dietro, nel cassone senza sedili, tendendosi come meglio poteva e santiando come meglio sapeva – che ogni curva fatta apposta a spigoli dall’amico alla guida, lo faceva andare a sbattere sonoramente contro la lamiera –, compariva Quello-con-gli-occhi-azzurri, che con un’aria mefistofelica, andava e tornava come un pendolo.
Il Transit rosso sbiadito si fermò a una fontana. Scese Quello-col-naso-grande e riempì tre munizioni. Ripartì il Transit verso il lato opposto di Trecastagni, dove non ci sono salite, ma molte traverse in piano, tra cui lo scassato furgone avrebbe potuto dileguarsi con certa facilità,  dopo che i suoi maledetti occupanti avessero lanciato i gavettoni dai finestrini verso le sedie a sdraio e le verande popolate di caldi corpi di adulti, stravaccati, a godersi il fresco serale di villeggiatura.
Poi, dopo aver visto la scena, dopo aver riso fino alle lacrime, e dopo la regolare fuga da infami, i quattro maledetti continuarono da un’altra parte, ripetendo il modulo.
Dopodiché, avvenne la parte seria con l’aiuto regia solerte di Quello-con-gli-occhi azzurri, ossia la rimozione delle transenne sparse con i relativi segnali stradali, e il carico dell’armamentario all’interno del Transit. Obiettivo serissimo: posizionarli con perizia altrove e bloccare una strada principale, al fine di deviare il traffico e dirigerlo verso la Montagna, per farlo perdere nelle sue alte contrade solitarie, immerse nel buio profondo della notte.
A seguire: Transit nascosto nella macchia, appostamento dei disgraziati per verificare l’efficacia dell’azione e silenzio assoluto.
Quando la prima macchina avrebbe svoltato con incredulità, e avrebbe proseguito dopo l’ultimo segnale inoltrandosi lentamente e inesorabilmente verso l’ignoto, i quattro maledetti si sarebbero piegati dal ridere, torcendosi e battendosi le spalle, e a qualcuno di loro magari gli sarebbe stato possibile bagnarsi sotto.

Infine, prima del ritiro, ci sarebbe stato il passaggio ultimo al campanello del collegio salesiano. Sarebbe sceso dal Transit Quello-col-naso-grande, che stava seduto a destra, e avrebbe infilato uno stecchino tra il pulsante e il citofono. E avrebbe lasciato che il destino maledetto si compisse, svegliando e svegliando e continuando a svegliare il sonno dei preti salesiani, a un orario ben oltre la mezzanotte.
Vedere da lontano, rimanendo acquattati come ladri schifosi, che il sacerdote più rapido venisse giù, aprisse il portone, tran-tran-tran con le sue mandate, e togliesse lo stecchino dal citofono urlante, era qualcosa di simile a un orgasmo fisico. I quattro maledetti bastardi a questo punto non ridevano nemmeno più: godevano estasiati della loro perfetta, infernale macchinosità.
Questo fu l’incipit di una storia di scherzi da prete, che sarebbe andata avanti per più di un mese, comprendendo le ferie (dunque il Transit disponibile) e superando il mitico Ferragosto.

Ai lanci di gavettoni in zona S. Alfio di Trecastagni, i signori villeggianti ora si facevano trovare pronti in controffensiva con tubi dell’acqua puntati a manetta contro il Transit. E qualche maleducato stradale, adesso osava ignorare la legge del codice della strada, passando tra le transenne o addirittura scendendo dalla macchina e spostandole!
I quattro sciacalli stavano iniziando a perdere il controllo della situazione, e soprattutto il divertimento da bastardi, fin quando una settimana dopo Ferragosto, nel Transit, Quello-grosso reclamò la posizione di Quello-col-naso-grande.
Voglio starci io al finestrino.
Sei sicuro?
Sì, voglio tirare io i gavettoni e poi voglio metterglielo io, lo stecchino stasera, ai parrini. Glielo spezzo dentro, così che non riusciranno a tirarlo fuori e dovranno staccare la luce, ‘sti parrini… ih, ih, ih.
Quella sera andò tutto bene nel giro delle villette: i due fronti si scambiarono i tiri, con lucidità e prontezza reciproca; e qualche macchina poi si perse ugualmente nei silenzi remoti di Piano Ellera. Andò tutto bene fino al collegio.
Qui avvenne un giro di volta che cambiò per sempre il destino di quei maledetti, sciogliendo il gruppo e il loro agire bastardo dopo pochissimo e inaspettatamente.

Il Transit arrugginito arriva lentamente e si ferma col motore acceso davanti al portone del collegio. Si apre lo sportello di destra e scende Quello-grosso, strascicando gli zoccoli di legno sulle basole. Quello-grosso si avvicina al portone e, con fare da professionista, infila lo stecchino nella fessura e lo spezza senza indugio. Il campanello del palazzo attacca a suonare, a urlare nel silenzio. Quello-grosso già ride e mentre ride, si sente tran-tran-tran, le mandate del portone tolte. La risata si ferma nell’aria, Quello-grosso fa per scappare ma lo zoccolo destro gli scivola dal piede. Torna indietro istintivamente per recuperarlo, e si trova faccia a faccia con un tipetto in pigiama, senza capelli e lo sguardo vispo, che sembra uno gnomo. Furioso, questo urla agitando il pugno: “E bravi, bravi, ca cci scassati ‘a minchia ogni sira…” (per rispetto verso i propri lettori, l’autore riporta esattamente la frase pronunciata a volume alto e tono molto acceso dal piccolo signore in tenuta da notte – le fonti sono sicure ma segrete – , ma si sgancia con fermezza dall’approvazione di tale linguaggio sicilianpopolare).
Quello-grosso se ne fotte dello zoccolo perduto in battaglia, e scappa saltellando, s’aggancia al Transit che è già in accelerazione e non lo aspetta – perché i bastardi sono bastardi, soprattutto tra di loro – e a fatica salta su, non aiutato da Quello-col-naso-grande – proprio perché i bastardi sono bastardi, soprattutto tra di loro.
“Prendo la targa, prendo la targa!” – urla dietro lo gnomo inferocito, in pigiama.

Il Transit fu abbandonato subito dopo ai bordi di una vigna, e ciascuno dei quattro occupanti si lanciò a piedi di corsa nella notte, seguendo un punto cardinale diverso, e non si cercarono più per trent’anni.
Il parrino sceso in strada in pigiama non sporse mai denuncia e pare che non urlasse prendo la targa!, ma la prendo alla larga! Perché il portone del collegio rimase aperto, con lo stecchino spezzato nel citofono a svegliare dal sonno l’ultimo ospite del collegio, ogni vecchio e nuovo sacerdote, e anche il gatto, che saltò fuori dalla finestra e si perse nella fresca notte di fine agosto. Pare – pare – che quell’omino pelato dallo sguardo rapido non rientrò più, e camminando verso le vigne andò a recuperare il vecchio Transit diesel, girò la chiave e partì verso mete lontane e un’alba sfolgorante, canticchiando una preghiera a suon di canzone. Amen.

Leggi altre: Storie dell’altro mondo
Sergio Mangiameli è del ’64, geologo, giornalista pubblicista, interprete naturalistico, vive sull’Etna. Ha pubblicato i racconti “Dall’ulivo alla luna” (Prova d’Autore, 1996) e “Rua di Mezzo sessantasei” (Il Filo, 2008), i romanzi “Aspettando la prima neve” (Rune, 2009), “Dietro a una piuma bianca” (Puntoacapo, 2010), “Sul bordo” (Puntoacapo, 2013), “Come la terra” (Villaggio Maori, 2015, che ha partecipato a MontagnaLibri 2016 del Trento Film Festival), “Quasi inverno” (A&B Editrice, 2018), "La nevicata perfetta" (A&B Editrice, 2020). Ha scritto i testi di “MicroNaturArt – voci dal microcosmo” (Arianna, 2014), esperimento letterario di fotografia scientifica; i racconti di “Ventiquattr’ore – fotografie di finestre e parole intorno” (Puntoacapo, 2016), i cui scatti sono di Lino Cirrincione; e, assieme al vulcanologo Salvo Caffo, “Etna patrimonio dell’umanità, manuale raccontato di vulcanologia e itinerari” (Giuseppe Maimone Editore, 2016), con le illustrazioni di Riccardo La Spina. Ha scritto i testi dei film corti “La corsa mia” e “Idda”, e i monologhi “Questa storia” e “Il gioco infinito”, visibili entrambi su YouTube. Sul portale web Etnalife, scrive racconti etnei per la rubrica letteraria “Storie dell’altro mondo”. “La piuma bianca” è il suo blog sul magazine online SicilyMag. L’esperimento nuovo è “Le colate raccontate” – vulcanologia storica dell’Etna e narrativa surreale insieme, tra esattezza scientifica e finzione letteraria in racconti –, portato in scena col vulcanologo Stefano Branca.
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