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Come per la Brexit qualcuno immagina la demolizione del Parco del’Etna per una “presa di possesso”. Nonostante tutto, l’ente rimane la sola istituzione in grado di garantire una natura rispettata
di Sergio Mangiameli
Man mano che la sedimentazione della questione Brexit procede, traslando il tema sull’ambiente, mi sale da dentro un certo paragone di casa nostra. Quella voglia di dar sfogo alle turbolenze di pancia, quel moto di reazione allergica alle regole imposte ad ombrello sulla nostra terra, quell’inclinazione dell’umanità collettiva nel seguire l’ultimo urlatore arrivato, che fa vedere bello il distruggere e fa salire in evidenza basta-Parco dell’Etna: insomma una sorta di Parcoexit. Allo stesso modo della questione europea, anche la piccola storia etnea avrebbe da dire che, viste le mancanze decennali (di guardaparco, di centri visita, di aree faunistiche, di una rete sentieristica segnata completamente, di servizi di fruizione compatibile), viste le restrizioni continue (di carattere edilizio, soprattutto, per infrastrutture di vario genere con vari obiettivi), visto anche il degrado superficiale delle centinaia di siti di rifiuti abbandonati, smontiamo il Parco dell’Etna: costa troppo, è un carrozzone inutile.
Anche qui, come per la questione europea, ci sono ragazzi di venticinque anni che non hanno conosciuto la situazione pre-Parco, quando la caccia era permessa e si arrivava alla Galvarina in 850 con le doppiette, dove ora è Zona A di riserva integrale e sito UNESCO; quando bastava una variante al Piano Regolatore comunale per costruire palazzine a tre piani in prossimità dell’orlo di conetti avventizi; quando il conferimento dei rifiuti avveniva in discariche comunali a cielo aperto in montagna, oggi Zona B e siti che sono stati bonificati dallo stesso Ente Parco.
La costruzione del Parco dell’Etna è partita da lontano per opera di persone di scienza e di cultura che avevano una visione. Valerio Giacomini, illustre ecologo di fama europea, direttore dell’istituto di botanica all’università di Catania, sosteneva che “ogni privazione di natura, ritorna inesorabilmente a danno dell’uomo”. E’ stato uno dei sostenitori dell’istituzione Parco dell’Etna, per perseguire la tutela della natura etnea per l’uomo stesso; una natura unica, tanto che il Parco è stato costituito con lo stesso scopo riportato nell’art. 1, e tanto che l’intera comunità naturalistica mondiale, negli anni a seguire ha dato ragione, dichiarando il territorio della zona di riserva integrale del Parco dell’Etna, sito patrimonio dell’umanità.
Che poi l’Ente – gestito da uomini e che per questo non fa differenza con nessuno degli altri settori dell’attività umana -, nel corso della sua storia, abbia dato anche diverse prove negative di sé, con sperpero di denari pubblici (costose ristrutturazioni di manufatti senza una procedura successiva di affidamento, che venivano di fatto abbandonati al vandalismo e all’esproprio di forza di certi pastori per uso proprio, come Casa Pietracannone) e di autorizzazioni arbitrarie per attività non consentite in zone protette, contro il suo stesso regolamento, è stato sotto gli occhi di tutti. Che poi adesso ci siano schieramenti ufficiali, che nulla hanno a che vedere con la tutela dell’ambiente, che in ambito istituzionale avallino pretese di gestione del sito UNESCO, volendo sgambettare il Parco, che è stato l’Ente che ha voluto, perseguito e raggiunto il titolo internazionale a costi pubblici irrisori, è anche questa cosa nota e pericolosa.
Ci sono assessori comunali all’ambiente schierati con movimenti che non vogliono il Parco, ci sono sindaci che per far leva elettorale di pancia urlano pubblicamente che il Parco non serve a niente. Ci sono poi file più o meno sparse di personaggi che a vario titolo hanno a che fare con l’Etna che, sulla scia emotiva del comprensibile accumulo del disgusto di camminare tra i rifiuti, incompatibili in un’area protetta molto più che nelle periferie della città, pubblicano sui social apporti in cui scaricano al Parco responsabilità che non ha.
Ritorna il moto di pancia e la voglia di rompere per azzerare, come fosse una liberazione dal nemico per un ripreso possesso. Come se il Parco fosse il nemico e non casomai sua madre, la Regione Sicilia, che l’ha voluto per scopi elettorali e l’ha voluto poi monco e povero sempre per scopi elettorali, per il principio di eterna alimentazione del bisogno che porta alla domanda e alla sua certa risposta promessa, e però mai mantenuta.
Parco-exit sarebbe dunque la soluzione migliore? Cosa avverrebbe dopo, se non la gestione di questo territorio da parte di un ente come la Città Metropolitana, che sta alla tutela dell’ambiente dell’Etna come il Marocco potrebbe stare alla guida dell’Europa? Quali certezze avremmo di mantenimento della natura originale? Cosa lasceremmo ai nostri ragazzi?
Ora più che mai ritengo pericoloso questo gioco a colpire più o meno indistintamente il bersaglio Parco, pur con tutte le motivazioni di cui abbiamo già detto, perché il rischio che ci sia un grumo di politici sciocchi, capaci di vedere massa in questa rivolta di pancia, e quindi voti a favore della propria poltrona, è reale (qui siamo in attesa, come per l’Europa, di leader coraggiosi che abbiano una visione di bene comune) e le conseguenze sarebbero devastanti per chi, come tutti noi, desideriamo solo una cosa: il piacere profondo di vivere in una natura rispettata.
Ecco perché pecco di poca fantasia, non immaginando un ente più appropriato del Parco dell’Etna per questo scopo, nonostante tutto. Ecco perché occorre abbassare i picconi e sostenere invece la ricostruzione soprattutto culturale di qualcosa che già abbiamo.
Ecco perché non mi piace Parcoexit. Ecco perché io rimango.