La strana storia di Esteban Blanco

Più che magro, leggero; non di pochi capelli, ma sufficienti; occhi chiari dello stesso colore dell’aria aperta. Esteban Feliz Blanco, figlio di Riolando Carlos Blanco, conte di Girona, e cugino di Francesco de la Cueva, duca di Albuquerque, viceré in Sicilia nella seconda metà del diciassettesimo secolo, viveva nobilmente a Palermo.
Dalla Catalogna era arrivato parecchi anni prima nella parte di Sicilia sbagliata, però. Perché suo padre e soprattutto il procugino Francesco, al ritorno dall’altra parte della Sicilia, raccontavano storie dell’altro mondo, dove c’era una montagna enorme che sputava fuoco e ruttava boati, e nel ruttare, la terra tremava. E lui, Esteban, rimaneva incantato.
Una montagna non può sputare fuoco – considerava però tra sé. Sarà roccia caldissima, forse talmente calda da sciogliersi, mi piacerebbe davvero un sacco andare a vederla!
Ma né Riolando né Francesco accolsero mai le parole entusiaste di Esteban.
“Troppo pericoloso, per un ragazzino. Quella è terra che cambia in fretta, che ti credi!”
Ma più gli parlavano così, più in lui montava qualcosa di contrario. E a parte questa sua inspiegabile inclinazione verso l’altra parte della Sicilia, che non gli facevano visitare, Esteban era tuttavia un ragazzino regolare; certo un po’ viziato rispetto alla plebe autoctona di pane duro e laidi stenti, ma sostanzialmente serio. Non era affatto un perdigiorno, non stuzzicava i servi di palazzo, e non prendeva a pedate – gioco diffuso tra i ragazzini a corte – i cani affamati che s’intrufolavano nei magazzini.

C’era un cosa strana, però, che confermava la regola di regolarità. Esteban, di notte, faceva finta di dormire. Chiudeva gli occhi, ma non dormiva. Erano già sei anni che andava avanti così. Adesso che ne aveva tredici, era diventato un esperto mondiale, l’unico probabilmente, della veglia continua.
Esteban sembrava tener dentro una carica matta, che prima o poi lo avrebbe fatto decollare – più che magro, leggero; non di pochi capelli, ma sufficienti; occhi chiari dello stesso colore dell’aria aperta.
Sufficientemente leggero per girare nel cielo.
Suo padre, Riolando, sulla torretta più alta aveva messo su un curioso artefizio che consisteva in una scrivania e una sedia che si affacciavano sulla piazza. E un riquadro di legno inchiodato, come un contorno, dentro il quale Riolando stesso, seduto, informava il popolo. Esattamente: informava. Leggeva cioè i comunicati dell’attività del viceré e dei fatti più importanti del regno, parlando all’interno di un protomegafono fatto di foglie di magnolia gigante, ai sudditi che si adunavano di sotto due volte al giorno. C’era l’edizione delle tredici e trenta e un’altra, poco prima del tramonto. Se pioveva poco, Riolando informava lo stesso. Molto, la trasmissione saltava all’indomani.
Riolando era fissato con questa storia dell’informazione, tanto che all’ambaradan di sedia-scrivania-cornice-protomegafono posti sul ciglio della torretta, aveva già dato un nome: Telemediterranea. Al popolo piaceva, e piaceva pure a Esteban, che non perdeva un solo tele-comunicato, venendo a sapere in diretta cosa stava accadendo dall’altra parte della Sicilia: una lunga colata di lava dall’Etna, che stava arrivando alle porte della città di Catania. Era la primavera del 1669.

Telemediterranea però non piacque tanto al cugino, il viceré Francesco che si trovava spesso fuori sede. Quando tornò da Catania, e vide l’edizione delle tredici e trenta, disse che era inutile, anzi controproducente: “Informare la plebe è come salvare un serpente: prima o poi ti morderà”. Così, dopo averci pensato due volte, perché era un governatore di larghe vedute, ordinò la chiusura di Telemediterranea, complicandosi però il rapporto col cugino Riolando.
Tuttavia, la sua durata effimera bastò perché Esteban venisse rovinosamente, perdutamente e definitivamente attratto dalla vulcanologia.
Tentò sette volte di fuggire dentro o sotto i carri in partenza verso Catania, ma fu sempre scoperto, a causa degli starnuti per la sua allergia al pelo del cavallo, e portato autoritariamente indietro a palazzo. Tentò di comprare i cocchieri, che però furbescamente alzavano la posta col signore Riolando. Tentò alla fine di parlare con suo padre, Riolando.
Con la grande franchezza che lo distingueva, gli disse: “Guarda Esteban, che l’eruzione dell’Etna si è fermata”.  Era il 16 o il 17 di luglio – i dati pervenuti non sono esatti.
A Esteban importò poco, questa notizia. Intuiva che ce ne sarebbe stata un’altra, di colata, prima o poi. E attese con pazienza, perfezionandosi a non socchiudere nemmeno gli occhi, a non sbadigliare mai, e a sognare di giorno.

Il tempo passava, si aggiunsero anni, e lui diventava sempre più leggero, fin quando fu proprio una notte che provò il salto. Non fisico, solo di mente.
Andò via dal palazzo palermitano, buttandosi nell’aria odorosa di campi dell’entroterra siciliano, che lo portasse a vedere sorgere il sole dalle rive di sciara. Ci arrivò, laggiù sulle soglie del mare, vide la terra nera e la montagna di lava, enorme. E rimase senza sbattere le ciglia per un tempo indefinito, di fronte all’inizio di tutto, anche della vita e di se stesso.
Lo trovarono disteso sul letto con gli occhi sbarrati. Respirava e rispondeva con calma. Era lì, Esteban, ma non totalmente lì.
Quella notte fu la prima di numerose repliche, in cui lui andava a scrutare da vicino le creste di terra nuova, ad appoggiare l’orecchio sul petto della Montagna per contarne i respiri, a guardare l’anima calda del mondo.
Diventò talmente bravo nel fare questi voli della mente, che non distinse più le due cose – la realtà dal sogno –, e finì per vivere aspettando la notte.
Fu l’ultima notte di gennaio del 1693, che Esteban compì una cosa mai fatta da nessun uomo. Attraverso una notizia passata rapida di mano dall’amico di suo padre Gioacchino Lansa, un altro fissato con l’informazione che nel frattempo, e con suo padre, aveva preso e spostato la sede di Telemediterranea tra le case del popolo, Esteban era venuto a conoscenza prima di altri, che la Sicilia orientale era stata sconvolta da un terremoto di proporzioni gigantesche.
Sussultò anche lui, preso dal fremito geologico, e da una decisione che non l’avrebbe più fatto tornare indietro.
Era diventato ormai leggerissimo quanto un pensiero.
Quella notte ci provò come fosse stata l’ultima e la più importante questione della sua vita, come fosse stata l’intera sua vita presa e recintata in quel buio finale. Volle andarci con tutto se stesso, così subito e fortemente, che sparì.
Il giro nel cielo lo compì senza ritorno.
Esteban Blanco non fu mai più ritrovato, né vivo né morto.

Solo Lansa, che prese il testimone da Riolando, ormai vecchio e malato, alcuni mesi dopo riuscì a dare questa notizia, tra le ultime di un giorno d’estate, il 16 o il 17 luglio – non si hanno dati esatti –, nell’edizione del tramonto: “Esteban Blanco non si può dire che sia morto. E’ solo scomparso da questo tempo. Esteban ritornerà nel futuro, sarà un geologo italiano appassionato di una terra che tanto dà quanto toglie. Ma vedrete che anche in quel tempo che noi possiamo solo immaginare, lui non avrà molta pace, e nelle conferenze che terrà, sarà facile sentirgli dire quanto avrebbe voluto vivere davvero sull’Etna del diciassettesimo secolo, tra la colata dei Monti della Ruina e il terremoto in Val di Noto”.
Gioacchino Lansa finì così l’edizione della sera. Spense la candela, poggiò il protomegafono sulla scrivania, e lasciò lì il suo cappello da cow-boy, senza più riprenderselo.

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Sergio Mangiameli è del ’64, geologo, giornalista pubblicista, interprete naturalistico, vive sull’Etna. Ha pubblicato i racconti “Dall’ulivo alla luna” (Prova d’Autore, 1996) e “Rua di Mezzo sessantasei” (Il Filo, 2008), i romanzi “Aspettando la prima neve” (Rune, 2009), “Dietro a una piuma bianca” (Puntoacapo, 2010), “Sul bordo” (Puntoacapo, 2013), “Come la terra” (Villaggio Maori, 2015, che ha partecipato a MontagnaLibri 2016 del Trento Film Festival), “Quasi inverno” (A&B Editrice, 2018), "La nevicata perfetta" (A&B Editrice, 2020). Ha scritto i testi di “MicroNaturArt – voci dal microcosmo” (Arianna, 2014), esperimento letterario di fotografia scientifica; i racconti di “Ventiquattr’ore – fotografie di finestre e parole intorno” (Puntoacapo, 2016), i cui scatti sono di Lino Cirrincione; e, assieme al vulcanologo Salvo Caffo, “Etna patrimonio dell’umanità, manuale raccontato di vulcanologia e itinerari” (Giuseppe Maimone Editore, 2016), con le illustrazioni di Riccardo La Spina. Ha scritto i testi dei film corti “La corsa mia” e “Idda”, e i monologhi “Questa storia” e “Il gioco infinito”, visibili entrambi su YouTube. Sul portale web Etnalife, scrive racconti etnei per la rubrica letteraria “Storie dell’altro mondo”. “La piuma bianca” è il suo blog sul magazine online SicilyMag. L’esperimento nuovo è “Le colate raccontate” – vulcanologia storica dell’Etna e narrativa surreale insieme, tra esattezza scientifica e finzione letteraria in racconti –, portato in scena col vulcanologo Stefano Branca.
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