Il topo morto è stato salvato

Questa è una storia impossibile, capitata, anzi voluta da quattro bambini: Irene, Giovanni, Marisa e Anna.
La storia si svolge in una vigna di un posto imprecisato, più o meno a metà tra la neve e il mare. Insomma, sui fianchi dell’Etna.
E’ un pomeriggio d’inverno, uno di quelli in cui l’aria punge e la luce accende i colori delle cose, e desta i sensi assopiti. Il vento sembra appeso sui rami di un grande pino, ormeggiato e forse dimenticato in questa vigna da un brigante di passaggio. Perché sotto ad alberi maestosi come questo si possono nascondere i tesori più impensabili, forse anche impossibili, di briganti che da qui sono passati e non sono più tornati.
“Andiamo fuori”, dice Irene ad alta voce.
“Sììì, andiamo nella vigna!”, dà forza Anna quasi strillando.
“Ok, facciamo il gioco della cucina…” si affretta Marisa a non rimanere indietro; si alza e corre a mettersi il maglione pesante.
Giovanni è già alla porta, zitto zitto ma intento a non rimanere ultimo.
Aprono il grande cancello ed entrano in uno spazio immenso, che diventa per loro un mondo dove tutto si rivela possibile. Irene è la più grande del gruppo ma non è riconosciuta, perché spesso e volentieri è isterica. Giovanni è l’unico maschio, ma è elusivo e il gruppo lo infastidisce: preferisce seguire piste alternative riflettendo sugli aspetti del mondo. E’ secco come un uccello e a volte, quando sparisce, sembra proprio che abbia preso il volo per dare uno sguardo a quello spicchio di mondo che ancora non capisce.
Marisa e Anna possono essere scambiate per sorelle quasi gemelle, se non fosse che una è castana e l’altra bionda, una tira col naso e si odora le dita delle mani, l’altra tossisce e strilla volentieri se le cose non sono messe precisamente dove devono stare e le persone non fanno precisamente quello che dovrebbero fare. Tra di loro si prendono in giro. “Marisa-con-la-esse-tra-i-denti”. “Anna- che-puarla-cume-una-buambina-russa”. Ma stanno sempre insieme, si vogliono un gran bene e sono d’accordo su due punti importantissimi: che non si maltrattano gli animali e che fa schifo baciare in bocca i bambini maschi.
Dal loro caciare, il vento si desta e apre un occhio.
“Oh cacchio, mi si scveglia per quattro bipedi mocciosi che cescpicano i litigano i frugolano tra di loro. Oh cacchio, si scpera che incescpichino i cadino i pianghino tra di loro. Così la si scmetta di dar fasctidio al sonno del verchio Pino”.
A questo punto, si sente un alto scrollare di rami e qualcosa, come un ciuffo di aghi, cade giù.
“Anna, perché mi tiri gli aghi del pino sui capelli?!” si irrita Irene, e diventa dritta di tensione già prima di finire la frase.
“Ma non sono stata io, uffa!” si scoccia subito la russa.
“Sì va bene, e chi è stato allora? solo tu sei dietro di me”, l’isterica puntualizza acuta e prosegue.
“Anna, andiamo là sotto, nel fosso della ruspa?”, propone Marisa esse-che -scappa.
Russa dà un colpo di tosse, poi un altro, dice “vua bene”, e parte a correre con un abbrivio incontenibile. Supera a tradimento Giovanni, l’uccello,  che non sa, e tuttavia si mette a correre appresso a Russa. Attraversano di filata tutta la vigna e arrivano al bordo del fosso, così di seguito: Russa, Uccello, Esse-che-scappa e Isterica.
“Prima!” dice Russa.
“Non è vero! Siamo arrivati pari!” dice Uccello.
Russa tossisce e Uccello comincia una litania di protesta per l’ordine esatto di arrivo al bordo del fosso. I toni si alzano fino a quando qualcuno esclama: “Ehi, guardate laggiù! Che cos’è?”
Silenzio, e tutti e otto gli occhi sono puntati in fondo al fosso a guardare qualcosa di piccolo, peloso e fermo con un che di spezzato.
“E’ un gallo!”
“Un gallo?”
“Ehm… forse un pulcino sanguinato?”
“Io non vedo le ali”
“Neanch’io”
“Andiamo a vedere”
“Già, andiamo a vedere”
Sanguinato hai detto. Speriamo che non soffra, poverino”
Scendono dalla scarpata caracollando, scivolando e sporcandosi di terra.
“E’ un topo morto”, sentenzia Russa.
“Morto?” chiede Esse-che-scappa al limite del pianto.
“Morto! Morto. Vedi la testa girata e il sangue? E’ morto, completamente morto”, aggiunge Uccello.
“Chissà chi l’ha ammazzato”, considera Isterica.
“Uààà, UUààà!!”. Lacrime, pianto, grida di disperazione di Esse-che-scappa che si commuove in macelleria, che non può passare accanto ad un girarrosto senza provare un sussulto e bloccare le lacrime silenziose.
“Poverino, poverino, poverino!”, Esse-che-scappa si porta le mani sul viso. Piange e le mani sporche di terra sulle lacrime le sconvolgono la faccia. E’ una maschera di fango nero, con gli occhi rossi, lucidi e strabuzzati. E continua a urlare.
“Oh cacchio! Non mi si è possibile di continuare a bighellonare nei giardini di Morfeo”, si scuote il vento. E guarda da dove vengono le grida.
“Uh poveretta: quescti che odo son strilli de scgomento, fiurli de paura, cischi fremitosi de una mocciosa. Uh, talè! Mi pare la piccola bipeda de prima, de la ciurma che mi rompea la coglia. Ma nau illa ì davero scantoliata. Che forse chiange chell’è morto quarcuno?”
Pino si muove verso di loro per dare un’occhiata. Ai quattro bambini arriva adesso una folata, che a Esse-che-scappa asciuga d’un tratto la maschera, così da renderla ancora più tremenda; a Russa alza la chioma e le fa strizzare gli occhi, che pare sul piede di guerra; e a Isterica  sgombera la mente con un’idea che risolverà il problema, e la fa drizzare e procedere a salti e piccole urla.
Uccello, che ipotizza la morte avvenuta per opera di un gatto sazio, confabula serio tra sé e non guarda il trio da battaglia. Esce fuori dalla trincea e s’incammina oltre, forse a guardare in pace un po’ di panorama. Del vento, non si cura.
Quando giunge Pino sul luogo del ritrovamento del cadavere, il quadro è questo appena detto. Fa: “Urco! Pirò! Chisti un so bambini, so pirciotti chi sanno chillo chi fanno. Uarda chi nervo, sento passione a la vita, sangue chi scorre, vòlia di pensare”.
In preda alla meraviglia di vedere ancora un gruppo di bambini organizzarsi il pomeriggio da soli, in uno spazio così vasto di terra e di piante, il vento commosso si mette a cantare:
Se tutti i bambini del mondo a un certo momento
andassero via
tutta una serie di stelle di polvere bianca caricata nel cielo
ma il cielo coperto di stelle, anche lui sarebbe via.
Se tutti gli adulti del mondo contro ogni previsione
abbassassero gli occhi e rimanessero via,
senza una sola speranza, quel grandioso rumore
la terra, povero cuore fuggirebbe via.

Quando cantava, Pino riusciva a parlare correttamente, senza tutti gli influssi di tutte le lande che aveva attraversato e di cui si era innamorato. Certo, avendo sempre la testa tra le nuvole, non poteva avere la concentrazione giusta per trovare parole nuove. Così, modificava a suo gusto e sul momento certe composizioni e brani e passi che dalla terra lo raggiungevano commovendolo.
Tutti i venti cantano. Non tutti gli uomini però riescono a sentirli. I bambini nel vento, anche se non sanno, s’arricchiscono di idee e intuizioni nuove. Che appunto, porta loro il vento.
“Ragazzi! Mi è venuta un’idea!”, urlacchia Isterica saltando verso Russa ed Esse-che-scappa.
“Che cosa?”
“Quuale ìdea?”
“Io costruisco una capanna, piccola. Raccolgo dei fiori e voi trasportate il corpo del topo morto nella capanna”.
“Ma perché, poverino?”. Esse-che-scappa sta per riprendere a frignare.
“Per salvarlo” dice Isterica, e per questo momento non è più isterica.
Pino è fermo e osserva e alza le sopracciglia. Ha smesso di cantare, e la campagna rimane in silenzio, quasi in attesa di ascoltare per intero il progetto di Isterica.
“Per salvarlo dalla ruspa, che domani potrà spiaccicarlo. Lo mettiamo al sicuro, così starà in pace e nessuno gli farà più del male. Che ne dite, eh?”
Esse-che-scappa guarda Russa, s’asciuga col polso l’impiastro umido sulla gota destra e già comincia a cambiare espressione.
“Sììì, bella idea!” rompe l’attesa Russa.
“Così non soffre più?” s’accerta Esse-che-scappa.
“Certo!” la conforta Isterica, che è già tornata isterica.
“Certo. Prendiamo delle curteccie” dice Russa.
E mentre il vento sorride guardando la scena, e Uccello cerca la connessione tra la terra e il cielo, avviene il funerale con degna ostensione della salma. Adesso il topo morto giace su un letto di piccole cortecce leggere, in una nicchia di rametti e foglie secche, adornato di piccoli fiori di campo gialli e viola.
Esse-che-scappa, Russa e Isterica sono lì davanti, in piedi, a guardarlo. Sanno che non tornerà a correre nella vigna, ma sanno anche che adesso è salvo. Tutte e tre hanno in viso un’espressione di serena soddisfazione e adesso, che è appena arrivato Uccello, lo guardano in silenzio. Lui stranamente s’associa; vorrebbe dire qualcosa, chiedersi qualcosa, ipotizzare qualcosa ma alla fine pensa che sia meglio rimanere in silenzio. Rimanere. Non come i briganti, che prendono e poi lasciano e poi non tornano più e dimenticano.
Il vento adesso riprende a cantare da dietro le loro spalle. Sibila piano: “bai, pirciotti”, manda un bacio e poi va via.
Ma se questo mondo è un mondo di persone
per essere felici, basterebbe un niente
magari una canzone, o forse più
se non sarebbe il caso di provare ad aprire gli occhi
e poi quando hai aperto gli occhi, ti riconosci tu.

(I versi sono ispirati alla canzone Felicità di Lucio Dalla, che ha vissuto anche lui a metà tra la neve e il mare. Insomma, sui fianchi dell’Etna).

Sergio Mangiameli

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Sergio Mangiameli è del ’64, geologo, giornalista pubblicista, interprete naturalistico, vive sull’Etna. Ha pubblicato i racconti “Dall’ulivo alla luna” (Prova d’Autore, 1996) e “Rua di Mezzo sessantasei” (Il Filo, 2008), i romanzi “Aspettando la prima neve” (Rune, 2009), “Dietro a una piuma bianca” (Puntoacapo, 2010), “Sul bordo” (Puntoacapo, 2013), “Come la terra” (Villaggio Maori, 2015, che ha partecipato a MontagnaLibri 2016 del Trento Film Festival), “Quasi inverno” (A&B Editrice, 2018), "La nevicata perfetta" (A&B Editrice, 2020). Ha scritto i testi di “MicroNaturArt – voci dal microcosmo” (Arianna, 2014), esperimento letterario di fotografia scientifica; i racconti di “Ventiquattr’ore – fotografie di finestre e parole intorno” (Puntoacapo, 2016), i cui scatti sono di Lino Cirrincione; e, assieme al vulcanologo Salvo Caffo, “Etna patrimonio dell’umanità, manuale raccontato di vulcanologia e itinerari” (Giuseppe Maimone Editore, 2016), con le illustrazioni di Riccardo La Spina. Ha scritto i testi dei film corti “La corsa mia” e “Idda”, e i monologhi “Questa storia” e “Il gioco infinito”, visibili entrambi su YouTube. Sul portale web Etnalife, scrive racconti etnei per la rubrica letteraria “Storie dell’altro mondo”. “La piuma bianca” è il suo blog sul magazine online SicilyMag. L’esperimento nuovo è “Le colate raccontate” – vulcanologia storica dell’Etna e narrativa surreale insieme, tra esattezza scientifica e finzione letteraria in racconti –, portato in scena col vulcanologo Stefano Branca.
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