Il Gatto selvatico, ultimo grande predatore dell’Etna. Sergio Mangiameli intervista Stefano Anile

Stefano Anile è leggero ed elusivo, come la fauna selvatica, che studia e l’appassiona. Ma generoso, come è naturale che sia. L’abbiamo incontrato sul filo della sua partenza lavorativa per gli States, Southern Illinois University di Carbondale, a proposito di “come siamo messi, selvaticamente, sull’Etna?” 

“Da poco, sotto la guida del prof. Mario Lo Valvo del laboratorio di Zoologia applicata del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche, Chimiche e Farmaceutiche, dell’Università di Palermo, abbiamo consegnato al Parco dell’Etna la relazione finale dell’indagine e monitoraggio per la conservazione della coturnice di Sicilia, del coniglio selvatico e del gatto selvatico nell’area del Parco dell’Etna

Quest’ultimo mi affascina particolarmente per una ragione su tutte: non è addomesticabile. Il gatto selvatico rimane tale, a differenza della volpe, che non solo tollera l’uomo, ma si avvicina alle case e riesce a prender cibo dalle sue mani. Il gatto selvatico è capace di eludersi alla nostra vista a pochi metri di distanza e in perfetto silenzio. Ma lui c’è. E se gli lasciamo un boccone, lo rifiuta perché sente l’odore dell’uomo. 

In quarant’anni che vado sull’Etna, l’ho visto due volte sole, e mi reputo fortunato. La prima, in un bosco originario di media altitudine (non svelo il posto volutamente), sul finire di un giorno d’estate: erano in tre, madre e due figli, che scendevano di corsa da un castagno centenario. La seconda, di notte su un muretto in un altro luogo sui 1600 m di quota; al passaggio, ho sentito – non ascoltato – qualcosa, mi sono voltato e l’ho visto: magnifico, seduto come lo Stregatto di Alice: una meraviglia. 

Questa sua presenza mi conforta e mi dà energia, per lo stesso principio che ho letto nel famoso “Con i lupi”, il libro scritto a due mani da Jim e Jamie Dutcher sulla prima lunga esperienza di vita insieme a un branco di lupi nordamericani: “Sapere della sua presenza da qualche parte, lassù sulle montagne, mantiene la speranza accesa di un mondo originale conservato, al quale tutti apparteniamo”. Radici di vita, cioè. E vi assicuro che correre in un bosco dove abita il gatto selvatico, dà una carica vitale che è una botta. Non si ritorna a casa come prima. Sapere che quassù, sui boschi dell’Etna, a pochi chilometri e minuti dai nostri centri affollati, esiste la natura viva, autentica e silenziosa è un tesoro inestimabile. Per questa ragione, non ho saputo trattenermi dal porre alcune domande a Stefano Anile, a bocce ferme, spinto anche dal fatto che diversi anni fa anche il periodico specializzato Oasis riportava l’areale etneo come il miglior territorio italiano, per densità abitativa.

Il gatto selvatico sull’Etna – Foto di Stefano Anile

D: “L’Etna è ancora il paese di Bengodi, per il gatto selvatico?”

R: “E’ il miglior luogo in Sicilia e tra i migliori in Italia, ma è in declino per minacce dovute all’alterazione e frammentazione degli habitat, dovuti anche agli incendi boschivi. Ossia: espansione della rete stradale all’interno e nelle vicinanze delle aree ad alta naturalità, operata senza le opportune misure di mitigazione per la fauna selvatica. Per esempio, la SS120 nei pressi di Maletto, è un luogo dove le morti da impatto automobilistico sono una realtà, e dove le misure di mitigazione consisterebbero in appositi segnali di avviso, previsti dal codice della strada, che già esistono in altre aree protette italiane e nel mondo”.

D: “Ci sono anche altre cause, a leggere il rapporto presentato al Parco”.

R: “Si, l’ibridazione col gatto domestico, legata all’aumentata presenza umana, che condurrebbe a una irreversibile diluizione del patrimonio genetico; il randagismo diffuso, perché i cani abbandonati sopravvissuti fanno branco e si inselvatichiscono, riproducendo l’istinto predatorio organizzato del lupo e piazzandosi quindi al primo posto della scala predatoria etnea, spodestando proprio il nostro gatto selvatico; il pascolo diffuso, soprattutto nel versante nord, dove abbiamo i sospetti dell’abbandono del territorio da parte della popolazione locale di gatto selvatico, a causa della scomparsa dei micromammiferi, sue prede naturali, a cui si aggiunge anche una forte riduzione dei conigli selvatici su tutto il territorio siciliano”.   

Considero che non è un lavoro facile che può fare il Parco da solo. Sul randagismo, occorre la parte importante dei Comuni del Parco (ci sono Comuni dell’alta fascia etnea che contano centinaia di cani randagi), di quelli limitrofi, e anche del Corpo Forestale col suo prezioso compito di vigilanza, ancora in mancanza dei guardiaparchi. Ecco che si apre lo spaccato della situazione territoriale etnea, per l’area protetta. Cioè, la sua frammentazione amministrativa e decisionale per la gestione del suo intero patrimonio naturale, col Parco lasciato volutamente a morire, senza mezzi, né uomini sufficienti, per lo scopo col quale è stato istituzionalizzato nel 1987. Il gatto selvatico appartiene alla stessa faccia della medaglia, dove ci stanno l’abbandono dei rifiuti, gli incendi dolosi, i rischi stagionali dovuti alla processionaria, la manutenzione dei sentieri, la mancanza di aree attrezzate, di aree faunistiche, di musei e luoghi d’incontro, l’insufficienza di rifugi custoditi e non ultima la revisione del regolamento di accesso alle quote sommitali (in cui, la proposta del libero comitato cittadino Etnalibera, fondato da associazioni, giornalisti, personaggi della cultura, è stata sottoscritta da un migliaio di sostenitori). 

D: “Cosa porta di nuovo, questo studio?”

R: “Le indicazioni e i suggerimenti d’intervento al Parco, e la recente istituzione di un consorzio europeo per la conservazione del gatto selvatico (EUROWILDCAT; www.eurowildcat.org) al quale partecipano università, musei, parchi e ricercatori indipendenti, come io stesso, di tutta Europa ha posto le basi per poter promuovere e coordinare la conservazione di questa specie, sia a livello locale che europeo”. 

D: “Perché è importante la tutela del gatto selvatico?”

R: “Perché è il top-predator dell’Etna. Tutelandolo al meglio, tutto l’ecosistema dell’Etna ne trarrebbe giovamento, consentendo di preservare questo territorio, e con lui, a cascata, tutta la fauna che sopravvive alle pendici del più alto vulcano d’Europa, oggi anche sito naturale UNESCO patrimonio dell’umanità”. 

Saluto Stefano Anile, anche lui cervello in fuga da quest’Italia che non sa ripartire, lasciando preoccupanti, inaccettabili mancanze d’azione proprio nel settore del territorio naturale, dove ci sarebbe lavoro immediato e per una generazione intera, solo ad averne cura.   

Sergio Mangiameli è del ’64, geologo, giornalista pubblicista, interprete naturalistico, vive sull’Etna. Ha pubblicato i racconti “Dall’ulivo alla luna” (Prova d’Autore, 1996) e “Rua di Mezzo sessantasei” (Il Filo, 2008), i romanzi “Aspettando la prima neve” (Rune, 2009), “Dietro a una piuma bianca” (Puntoacapo, 2010), “Sul bordo” (Puntoacapo, 2013), “Come la terra” (Villaggio Maori, 2015, che ha partecipato a MontagnaLibri 2016 del Trento Film Festival), “Quasi inverno” (A&B Editrice, 2018), "La nevicata perfetta" (A&B Editrice, 2020). Ha scritto i testi di “MicroNaturArt – voci dal microcosmo” (Arianna, 2014), esperimento letterario di fotografia scientifica; i racconti di “Ventiquattr’ore – fotografie di finestre e parole intorno” (Puntoacapo, 2016), i cui scatti sono di Lino Cirrincione; e, assieme al vulcanologo Salvo Caffo, “Etna patrimonio dell’umanità, manuale raccontato di vulcanologia e itinerari” (Giuseppe Maimone Editore, 2016), con le illustrazioni di Riccardo La Spina. Ha scritto i testi dei film corti “La corsa mia” e “Idda”, e i monologhi “Questa storia” e “Il gioco infinito”, visibili entrambi su YouTube. Sul portale web Etnalife, scrive racconti etnei per la rubrica letteraria “Storie dell’altro mondo”. “La piuma bianca” è il suo blog sul magazine online SicilyMag. L’esperimento nuovo è “Le colate raccontate” – vulcanologia storica dell’Etna e narrativa surreale insieme, tra esattezza scientifica e finzione letteraria in racconti –, portato in scena col vulcanologo Stefano Branca.
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