Anno 1537, inizio estate, Monastero di San Nicola.
– Allora? Che è? Hai impracato, fratello Daniele? – disse fratello Peppuccio, sorpreso dell’imprevisto blocco dell’altro.
– Avrà dimenticato qualcosa – disse fratello Alessandro.
– Cosa?
– E che ne so cosa…
– Forse s’è dimenticato perché sta lasciando il monastero.
– Non dire fesserie.
E intanto lui, Daniele Offerto, se ne stava fermo, con un piede sul secondo gradino e uno sul terzo. Se ne rimase così per un tempo eterno. Guardava davanti a sé, sembrava che cercasse qualcosa. E alla fine, fece una mossa strana. Si sfilò il cordone del saio, piegò il gomito fino alla spalla e lo lanciò verso i bordi della colata poco distante, che aveva lambito le mura del monastero un mese prima. Un colpo di vento inatteso lo sospinse fino alla sciàra, appuntandolo su una cresta.
Peppuccio e Alessandro si guardarono muti. Daniele li osservò con distacco, e, con uno strano sorriso in faccia, voltò le spalle al mondo, fece due passi e sparì dentro il monastero, che già appariva come una nave abbandonata nella tempesta di terra.
Andiamoo?! – urlò qualcuno da mezzo al viale di querce, da una delle diverse carrozze in attesa.
Alessandro fu più rapido di Peppuccio, precipitandosi dentro, nel buio pesto della nave vuota.
– Daniele? Daniele??
– Sono qui dietro.
– Ma… siamo tutti fuori, dobbiamo andar via. L’abbiamo deciso, dobbiamo andare in città, a Catania, dove stanno costruendo il nuovo monastero. Daniele. Qui ormai è diventato troppo insicuro e infelice, pregare e lavorare: le scosse di terremoto dell’anno scorso e la nuova colata di adesso… Ne abbiamo già parlato. È così. Andiamo.
– Non devi pensare che io sia infelice: non lo sarò mai più.
Non si dissero nient’altro, i due monaci, quell’ultima volta dentro a un buio chiarissimo. Quando Alessandro venne fuori, Peppuccio lo strattonò: “Allora?!”
“Andiamo” – rispose a denti stretti.
Per tutto il viaggio verso Catania, Alessandro pensò al timbro di voce di Daniele: secco, di uno che non scherzava; uno che sapeva benissimo dove stava andando. E che ci sarebbe arrivato senza l’abito.
Alessandro non guardò la colata vicino, non guardò più niente. Sapeva che Daniele sarebbe rimasto fino a una certa fine. Non la disse mai a nessuno, la frase che Daniele sparò al buio, un attimo prima che lui stesso se ne andasse. “Se dovrò vedere il mare, sarà la terra a portarmici”.
Ventun anni dopo, in una sera dolcissima d’autunno, nel sussurrare delle querce al vento leggero, l’unico uomo abitante del transatlantico in abbandono, morì per la sua fine arrivata. Non lo aveva ucciso la terra, come temevano gli altri monaci, l’unica invece ad averlo saputo abbracciare e ad aver saputo custodire il sorriso eterno.
A Catania, la terra sarebbe arrivata da Nicolosi, da una contrada vicina al vecchio transatlantico, nell’estate del 1669. Avrebbe preso il sorriso di Daniele e, prima di terminare a mare e spostarlo più in là, sarebbe passata a salutare i monaci nel nuovo monastero di San Nicolò: “Proprio a mare si va”.