Da Ciccio, granite e calcio-balilla

Questa è la storia di un detto, un modo di dire e di intendersi, che solo i catanesi e pochi etnei di cinquant’anni in su, possono sapere e ricordare ancora, perché attinge a una società in via di estinzione

Dopo lunghissime indagini, interviste, approfondimenti e studi, la ricostruzione dei fatti, vogliamo supporre che sia andata così. Più o meno.

Francesco Salvatore Maria Cantone nacque a Barriera del Bosco, nel letto matrimoniale di crine di una casa terrana, la sera del ventisette gennaio millenovecentoventotto. Era il settimo figlio di Concetta e Gaetano Cantone, detto Tano ‘ntone, saputo sentire come Tanontone (tr. in vernacolo “u sanu sèntiri comu Tanontoni”). Fuori, arringava un freddo di cattivi signori, che neanche i cani (“di mali chistiani, ca mancu li cani”) osavano vagare per le strade. Erano accucciati lontano dalle gambe degli uomini, che all’epoca avevano il vezzo di allungare loro un calcio una volta sì e un’altra volta pure. Non erano maleducati, questi tizi del passato, ma solo pratici: i cani non si tenevano per compagnia, ma perché avevano un compito funzionale (solitamente erano cani-di-mànnara, da pastore), e dovevano badare a sé; qualora fossero finiti tra i piedi e non c’era molta pazienza, una pedata li rimetteva a posto.
Il secondo nome di Francesco, detto Ciccio, era comune a tutti i suoi fratelli, perché di un Salvatore c’è sempre bisogno, come l’acqua, e il terzo nome, Maria, perché la madonna lo avesse potuto accompagnare lungo la vita.

Poveri, i Cantone, lo erano nei tempi migliori. Solitamente, di più, quasi poverrimi, perché anche gli aggettivi assoluti si rimpicciolivano per entrare in quella casa di una sola stanza e tre letti (dormivano insieme, anche per scaldarsi meglio), col bagno fuori e la cucina a parte.
Si dice che dividevano le croste di pecorino. Si narra che i Cantone leccassero, a giro, una sola sarda (donde il detto alliccamu-a–sadda per indicare uno stato di profonda indigenza). E quando qualcuno domandava a Tanontoni – che faceva lo spazzacamino, lavoro assolutamente in nero – come andasse, lui rispondeva lapidario: spingiamo il fumo con l’asta (ossia, ammuttamu-u-fumu-cca-stanga).
In questo clima di povertà spinta, quasi implementata, pressoché un poor-brand da eco-sopravvissuti ante-litteram, c’era chi piegava il collo e si arrendeva alla vita, chi dopo la fuitina si maritava a tredici anni, chi partiva per la città a scaricare roba dai mercantili al porto, e alla fine, dei sei fratelli, a Ciccio, ne rimasero solo due: un maschio, Pippo, e una femmina, Arazia (Grazia, ma lei era convinta che il suo nome iniziasse con la A, come con la lettera I iniziavano Iaffio, Ianna, Iangela…).

Ciccio attraversò tutto quello che la vita gli passava con i piedi. E un pallone. Anzi, anche il pallone era troppo per lui, e si rimpiccolì a “palla”. Di pezza, tenuta da corda, spago di seconda mano, e sputo come legante.
Fu una questione di talento fin dall’inizio. Si narra che appena sceso dal letto di nascita, Ciccio cominciò a prendere a pedate i topi, ma non con violenza. I topi vorticavano in aria, ricadevano sul collo del suo piedino e poi ricominciavano dei giri infiniti in aria, salendo e scendendo, danzando fino all’abbandono e al sonno senza mai più toccare terra. Finivano di girare nell’aria, quando Ciccio li scagliava contro la parete di pietre. Gool!!
In breve, i topi si passarono la voce e sparirono da quella casa, e Ciccio per questa pulizia zoologica, che nemmeno i gatti erano capaci di tanta esattezza, si conquistò un posto inventato, di certo privilegio quasi artistico – quasi, perché arte e cultura stavano ai Cantone come la fortuna è sempre stata a Paperino –. E non solo in famiglia, lui manteneva il posto d’onore: anche e soprattutto nella strada, dove non si separava mai dalla sua palla.

Non c’era un solo ragazzo, nemmeno un adulto, tanto abile a levargli la palla. Nemmeno in doppia marcatura. Ciccio svirgolava, immaginava traiettorie fantastiche, tocchi mai visti, forzature di gravità e la palla finiva sistematicamente in rete. Dopo ogni gol, Ciccio sputava per terra. Forse per fargliela pagare, a quella terra, di trattenerlo troppo, perché lui avrebbe fatto gol anche al Padreterno. Se solo avesse avuto l’occasione.
Venne la guerra e tutte le occasioni andarono a farsi fottere. E dopo le bombe, le fughe in campagna con lo zio e le sue pecore, i Cantone tornarono a Barriera e si diedero da fare, come tutti, poverrimi e meno poveri, per la ricostruzione. Per loro, era cambiato poco, perché come disse Tanontoni: “Chiù scuru di menzannotti, nun po’ fari”. Solo che non c’erano più camini, che non c’erano più tante case in piedi. E allora fu l’estro di Ciccio che salvò tutti.
Lo stesso principio d’invenzione che teneva tra i piedi, con naturalezza lo spostò alle mani, realizzando il primo calcio balilla con pezzi di scarto trovati tra le macerie dei crolli. Anche qui: riciclo ante-litteram, la culla della new green economy.

Formica, compensato, fil di ferro, legno, metallo, gomma, chiodi e viti. E una palla al centro. Venite, gente: granita di lumìa (al limone), pane caldo e calcio balilla.
Fu un successone. Non si comprava il pane caldo e nemmeno la granita preparata dalla mamma Concetta con la sorella Arazia. Con poche lire, si acquistava la felicità risorta, dopo le bombe e i crolli. Esser felici per mezz’ora, forse anche un’ora.
Si facevano i turni, poi le prenotazioni, divenne bar, caffè, befé biscotti e minè (intraducibile). Si chiamò Da Ciccio e il simbolo fu una palla, sempre piccola rispetto al nome.
E in una mattina luminosa di dicembre, due giorni prima di Natale, la società dei telefoni arrivò con due operai e un camioncino, e nel bar Da Ciccio fu installato il primo telefono pubblico di Barriera, dove si poteva chiamare e anche farsi chiamare.

C’erano ingegneri che prenotavano la granita di pomeriggio e un’ora di partita a calcio-balilla, uffici che chiedevano il caffè alle undici, fino a persone che fissavano l’appuntamento orario con altre persone, che telefonavano al bar Da Ciccio.
Rispondeva a tutti sempre lui, con uguale intonazione. Alzava la cornetta nera di bachelite e, come un direttore d’orchestra, dal bancone faceva un gesto preciso con la mano, per far sospendere il brusio. Tutti tacevano.
“Pronto, chi palla?”, si sentiva la voce che urlava dentro al telefono, non abituata appunto a parlare al telefono.
E lui, guardando tutti in un attimo e d’intesa, rispondeva: “Ciccio con la palla!”, e contemporaneamente con l’altra mano, tappava il microfono.
Quando la breve risata generale, anche la sua silenziata, era finita, lui in tono serio e con espressione concentrata, continuava: “Dica”.

 

Personaggi:

Arazia maturò in Grace, specialista della sublime granita al gelsomino (ha pure una foto con l’attrice Maria Grazia Cucinotta). E’ ancora in vita e ragiona benissimo.

Pippo con i suoi cugini tramutarono ‘a mannara in azienda di produzione casearia, che adesso è diventata un brand importante a Melbourne, “BioMannara – Made in Sicily”. E’ scomparso un anno fa, in un incidente nell’outback australiano. Si era ostinato a provare a mungere un canguro. Maschio.

Tanontoni volle fare un regalo a suo figlio Ciccio. Non per il compleanno, che forse nemmeno se lo ricordava, con tutti i figli nati e morti e partiti. Ma per quel primo Natale col telefono, che avrebbe cambiato le espressioni di centinaia di migliaia di catanesi. Un pallone. Un pallone vero con la sua firma e un pensiero da spazzacamino: “Il lavoro nero non porta da nessuna parte”.

Concetta festeggerà quest’anno per Santo Stefano i suoi 110 anni. Non sente più niente e mangia solo pane caldo e granita di limone.

Ciccio? E’ diventato da un bel po’ di anni cavaliere del lavoro, ma si sposta con una Smart elaborata, “truccata” dice lui. Si sveglia ogni mattina alle sei con l’urlo di Tardelli (doppiato da se stesso), per il secondo gol dell’Italia mundial. E’ amico intimo di Maradona, dal quale ha avuto in regalo il suo personale calcio balilla in oro puro. Perché? Perché anche i grandi campioni sanno sdebitarsi per un favore ricevuto: il colpo di collo pieno di Ciccio, el chico que hacía soñar a los ratones (il ragazzo che faceva sognare i topi).

Pronto-chi-palla, Ciccio-con-la-palla è stato un refrain degli anni passati, molto conosciuto e ripetuto a ogni livello sociale: uno stacco alla routine, che finiva sempre con una risata da ambo le parti. Le sue origini, pare siano proprio queste.

N.B. La storia raccontata è integralmente inventata dall’autore. Ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale

Sergio Mangiameli è del ’64, geologo, giornalista pubblicista, interprete naturalistico, vive sull’Etna. Ha pubblicato i racconti “Dall’ulivo alla luna” (Prova d’Autore, 1996) e “Rua di Mezzo sessantasei” (Il Filo, 2008), i romanzi “Aspettando la prima neve” (Rune, 2009), “Dietro a una piuma bianca” (Puntoacapo, 2010), “Sul bordo” (Puntoacapo, 2013), “Come la terra” (Villaggio Maori, 2015, che ha partecipato a MontagnaLibri 2016 del Trento Film Festival), “Quasi inverno” (A&B Editrice, 2018), "La nevicata perfetta" (A&B Editrice, 2020). Ha scritto i testi di “MicroNaturArt – voci dal microcosmo” (Arianna, 2014), esperimento letterario di fotografia scientifica; i racconti di “Ventiquattr’ore – fotografie di finestre e parole intorno” (Puntoacapo, 2016), i cui scatti sono di Lino Cirrincione; e, assieme al vulcanologo Salvo Caffo, “Etna patrimonio dell’umanità, manuale raccontato di vulcanologia e itinerari” (Giuseppe Maimone Editore, 2016), con le illustrazioni di Riccardo La Spina. Ha scritto i testi dei film corti “La corsa mia” e “Idda”, e i monologhi “Questa storia” e “Il gioco infinito”, visibili entrambi su YouTube. Sul portale web Etnalife, scrive racconti etnei per la rubrica letteraria “Storie dell’altro mondo”. “La piuma bianca” è il suo blog sul magazine online SicilyMag. L’esperimento nuovo è “Le colate raccontate” – vulcanologia storica dell’Etna e narrativa surreale insieme, tra esattezza scientifica e finzione letteraria in racconti –, portato in scena col vulcanologo Stefano Branca.
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