Babbo Natale e il pesce con la maionese

C’era una volta un’agitata sera della vigilia di un Natale singolare, che si preparava a svolgersi oltre l’abitato di un paesino indefinito dell’Etna.
Tirava un vento che sembravano due, e i fiocchi di neve parevano sparati dal cielo di fianco. Dentro casa, si aspettava che arrivassero i parenti dalla città. Il padre versava cherosene azzurro nelle stufe, la madre abbottonava di aglio e rosmarino un cosciotto di porco, lo zio caricava freneticamente legna nel camino, la zia abbottonava di rosmarino e aglio un porco di cosciotto. I nonni: uno si aggirava furtivo in cucina cercando di anticipare senza vergogna la cena, l’altro guardava la tv spenta con un sorriso. Le nonne: una tagliava l’aglio, l’altra il rosmarino. La zia secca, di novantadue anni e mezzo, era seduta su una seggiola sull’orlo della fornace, rischiando di diventare una torcia umana a ogni caricata di legna dell’irrequieto nipote.
I cinque bambini, infine, aspettavano Babbo Natale. Giocavano in maniera distratta e si picchiavano in maniera distratta, ma ogni tanto e tutti insieme, smettevano sia il gioco che le botte per appiccicare le punte dei nasi ai vetri, con la speranza di beccare Babbo Natale in arrivo, con la sua lunga barba bianca nella notte scura.
I cani erano due: Cicì e Cocò, madre e figlia di una razza bastarda, così bastarda che anche tra di loro non si assomigliavano per niente. Gli unici tratti in comune, a parte lo scontato novero delle quattro zampe, erano le orecchie calate. Va detto che Cicì e Cocò erano gli stupidi vezzeggiativi, perché dove andava la madre, Cicì, seguiva a ruota Cocò, la figlia. Cocò però, oibò, era maldestra, non riuscendo quasi mai a tarare le sue imprese, seppure da epigono, e combinando guai a sé e agli altri.

Una volta all’imbrunire, dalla strada stava scendendo verso il paese, Pippo. Come ogni sera, Cicì e Cocò si scapicollavano per abbaiargli camionate di decibel addosso, come del resto fanno tutti i cani di questo mondo verso tutti i muli di questo mondo, che passano davanti al loro territorio, anche se portano un nome di un cristiano e non di mulo.
Si narra che Cicì saltò la siepe con precisione, e Cocò invece si librò con quel tanto di incontenibile malagrazia da portare la sua inutile teca cranica a scontrarsi con immane violenza contro un fungo d’illuminazione. Si dice che il botto fu secco e spaventoso, quasi come un colpo d’arma da fuoco.
Pippo sorrise, ringraziando subito il dio dei muli. I bambini, in ordine, si portarono le mani sulla bocca, sulle orecchie, sugli occhi, sul pisello e sul culo, pensando subito che a Cocò fosse partita la testa e la sua anima già viaggiasse verso il dio dei cani bastardi.
Invece, quando il mondo riprese a muoversi, era ancora popolato da un cane scemo e da sua figlia più scema, e la prima cosa che i bambini videro fu Pippo frignare di sconforto, emettendo un raglio indimenticabile. Poi, videro pure il benessere sfrontato degli esseri idioti bearsi nella contentezza bastarda di Cocò, come nulla fosse stato, come se la mannaia piovuta sul collo del paletto d’illuminazione fosse stata la crozza di un altro animale.
Si riporta a voce che il più grande di quei bambini, che era già un ragazzino portato alle scienze, dall’alto della sua età avesse esclamato: “Perché la selezione naturale qui non sta funzionando?”.

Ma torniamo a quella agitata sera della vigilia di un Natale singolare.
Ad un tratto, il cielo di fianco si mosse tutto in avanti e la luce elettrica andò via appresso alla neve, che correva senza sosta. Il fuoco nella fornace si fece piccolo piccolo e il forno si spense. Rimasero tutti fermi in attesa.
L’unico che se ne fotté del buio improvviso, fu il nonno con l’appetito, che trafugò subito un pezzo di lardo dal marmo del tavolo. L’altro nonno tossì, i bambini chiamarono, gli uomini accesero i lumi a gas, e le donne riposero gli arnesi sul marmo e si portarono le mani sui capelli: “E ora? Come facciamo a cucinare il cosciotto di porco?”.
La luce non tornò più e la neve non smise di correre. Il tempo passava e i parenti dalla città non arrivavano. “Saranno rimasti bloccati dalla neve”, si ipotizzò. “Telefoneranno da qualche cabina e andremo a prenderli”. Nel frattempo, le catene alla macchina erano state già montate nella tormenta furiosa.
Il buio imprevisto aveva fatto smettere ai bambini sia di picchiarsi che di giocare, e adesso stavano anche col mento appiccicato ai vetri, per guardare negli occhi Babbo Natale, che sarebbe arrivato con la sua lunga barba bianca nella notte scura.
In cucina, la madre disse: “Meno male che comunque, come secondo, ci sarà il pesce con la maionese che porteranno loro”.
Tuttavia, loro – cioè i parenti della città – non si vedevano, e le ore, anche se con snervante lentezza, passavano. Ormai i bambini, in preda alla fame, avevano fatto fuori l’antipasto di salame e formaggio; il lardo era sparito, e gli uomini bagnavano il pane nell’olio salato delle acciughe, mandando giù più di un sorso di vino rosso.

Improvvisamente, Cicì e Cocò ruzzolarono fuori dalle cucce, avvalangandosi verso il cancello e abbaiando più forte della bufera.
La madre capì subito che i parenti erano arrivati a piedi, magari stavano già chiamando senza esito, con le voci inghiottite dal fragore della tempesta.
Partirono gli uomini con le torce, incontro agli avventurieri malcapitati in quella agitatissima notte di neve, di buio e di fame. Le facce dei bambini stampate dal vivo sui vetri. Il nonno moribondo in un angolo della cucina per gli eccessi di gola; l’altro, ormai al collasso neurologico bisbigliava tutti i nomi della Madonna. Le nonne cantilenavano il rosario a doppia catena. La madre riprese a fumare sigarette senza filtro, la zia invece col filtro. La zia secca fumava pure, ma di bordi di vestiti in procinto di accensione.
Ed ecco che le stampe sui vetri si accesero d’entusiasmo: “Babbo Natale! Babbo Natale sta arrivando!”. Batterono le mani, saltarono ridendo. E si avviarono di corsa verso la porta, aprendola subito alla neve e al vento.
Rimasero a bocca aperta, incantati.
Babbo Natale era lì davanti a loro, alto, con la lunga barba bianca nella notte scura. Che li guardava. Aveva anche un favoloso regalo imbiancato di neve, che teneva come fosse un grande vassoio sulla sua mano destra.
Fu un attimo. Poi il mondo si capovolse. Dietro Cicì, arrivò esagerando Cocò. Babbo Natale vide e tentò di schivare l’allungo del cane più scemo, azzardando un salto, che compì lesto e senza paura. Solo che l’atterraggio sulla neve con le suole di cuoio di città, fu devastante.
Babbo Natale rovinò sul fianco, il regalo a forma di vassoio si librò contro centinaia di fiocchi neve, roteando e capovolgendosi. Il dentice con la maionese atterrato sulla neve fu assalito d’istinto da Cicì, e Cocò a ruota.
I bambini, in ordine, si portarono le mani sulla bocca, sulle orecchie, sugli occhi, sul pisello e sul culo.
Quando il mondo riprese a muoversi, era ancora popolato da Cicì e Cocò, cani bastardi che stavano divorando la cena di Natale. C’erano ancora il padre e lo zio e gli altri parenti della città fermi sotto la tormenta, ma la figura che i bambini non dimenticarono mai fu il parente portatore del pesce con la maionese, con la lunga sciarpa bianca nella notte scura, scuotersi di indeciso sconforto, deflagrando infine in un botto di risata indimenticabile.

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Sergio Mangiameli è del ’64, geologo, giornalista pubblicista, interprete naturalistico, vive sull’Etna. Ha pubblicato i racconti “Dall’ulivo alla luna” (Prova d’Autore, 1996) e “Rua di Mezzo sessantasei” (Il Filo, 2008), i romanzi “Aspettando la prima neve” (Rune, 2009), “Dietro a una piuma bianca” (Puntoacapo, 2010), “Sul bordo” (Puntoacapo, 2013), “Come la terra” (Villaggio Maori, 2015, che ha partecipato a MontagnaLibri 2016 del Trento Film Festival), “Quasi inverno” (A&B Editrice, 2018), "La nevicata perfetta" (A&B Editrice, 2020). Ha scritto i testi di “MicroNaturArt – voci dal microcosmo” (Arianna, 2014), esperimento letterario di fotografia scientifica; i racconti di “Ventiquattr’ore – fotografie di finestre e parole intorno” (Puntoacapo, 2016), i cui scatti sono di Lino Cirrincione; e, assieme al vulcanologo Salvo Caffo, “Etna patrimonio dell’umanità, manuale raccontato di vulcanologia e itinerari” (Giuseppe Maimone Editore, 2016), con le illustrazioni di Riccardo La Spina. Ha scritto i testi dei film corti “La corsa mia” e “Idda”, e i monologhi “Questa storia” e “Il gioco infinito”, visibili entrambi su YouTube. Sul portale web Etnalife, scrive racconti etnei per la rubrica letteraria “Storie dell’altro mondo”. “La piuma bianca” è il suo blog sul magazine online SicilyMag. L’esperimento nuovo è “Le colate raccontate” – vulcanologia storica dell’Etna e narrativa surreale insieme, tra esattezza scientifica e finzione letteraria in racconti –, portato in scena col vulcanologo Stefano Branca.
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