Santo Paternostro, la vendetta

Fermo Arcidiacono fu trovato con le sopracciglia inarcate verso il cielo e gli occhi spalancati, che dovevano aver fissato la morte, colpendola ai nervi. Perché, dopo averlo colto nell’ultima, crassa risata sull’ecclesiastica uscita di scena di Santo Paternostro, la morte dovette rimanere irritata dal fatto che Fermo continuasse a ridere, nonostante se lo stesse portando. Si presume che fu per questo motivo, che il sigaro fu rinvenuto per terra, fumato.
Il periodico fu listato a lutto e fu pubblicato un redazionale anonimo in ricordo di Arcidiacono, che da undici anni ne teneva la direzione.
Santo Paternostro fu cercato e ricercato quasi, soprattutto per il pezzo che tutti i redattori concordi volevano affidarlo a lui, ma di lui non se ne seppe più nulla.

Fu una sera d’inverno di un po’ di tempo dopo, che accadde un fatto strano a Tremestieri. Pioveva neve, nel senso che il freddo c’era, ma non abbastanza da far scendere i fiocchi. La neve si scioglieva cadendo, imperlando finissimamente le strade e le cose, che sembravano bagnarsi con eleganza, senza quell’ordinario gocciolare senza misura e spandere acqua a destra e a manca come fosse grasso colante.
In una stradina del centro, sotto un lampione di luce gialla, un gatto vide passare una breve figura umana coperta da un mantello scuro. La bestia arruffò il pelo e miagolò con discrezione, prima di allontanarsi dalla scena. Nessuno fu testimone della porta di legno che si aprì senza un annuncio. Nessuno vide entrare la figura umana col mantello. E nessuno osò mai sostenere che quella sera d’inverno, in una casa terrana del centro di Tremestieri, sotto una non-nevicata elegante, un uomo senza capelli e basso di statura, entrò a casa di una certa Fedra Jensen, detta ‘a Signura.

‘A Signura era un’inglese molto brava a far due cose: una era di taglio e cucito – usava la tecnica del doppio segno incrociato. L’altra toccava la passione che l’aveva spinta a lasciare la sua terra d’origine: l’amore per gli uomini scuri, bassi soprattutto. La fama da’ Signura non travalicò i confini di Tremestieri per le sue imprese con ago e filo. Divenne nota a tutti, uomini e donne – donne soprattutto – per la seconda cosa: il mestiere più antico del mondo, che praticava però con aristocratico gusto inglese. Capitava che a volte non si facesse pagare e altre volte che non erogasse il servizio, nemmeno sotto minaccia di doppia tariffa. Si faceva perdonare il giorno dopo, i clienti lo sapevano, con prestazioni da ricordo.

‘A Signura conosceva i peli di tutti – si diceva così a Tremestieri –, e mi pare si dica ancora i pila, per intendere i fatti minuziosi di ognuno. Alle donne faceva il favore di tamponare gli eccessi e i vizi dei loro mariti, e agli uomini quello di dar fiato alle loro trombe a volte esuberanti. Entrambi, mariti e mogli, le erano grate in silenzio per l’obiettivo comune di tutelare così le famiglie, unite sotto il segno della croce e della benedizione domenicale. Inoltre, non fu mai espulsa dal paese, in virtù del fatto che fosse straniera, e agli stranieri – che possono essere anche cittadini di Catania – i paesani, allora come oggi, tollerano tutto, anche lo scempio delle proprie vigne comprate e trasformate da brutture costruttive indelebili, anche la sporcizia abbandonata e il taglio dei boschi, anche la prostituzione, ma non due cose: un posto nelle panchine della piazza e un altro, in Municipio, con la fascia tricolore.
Quella sera d’inverno, l’omino pelato che entrò a casa sua si tolse la croce dal collo. Non ci fu nessun testimone che poté affermare quanto possa essere accaduto.

Fatto fu che dopo tre quarti d’ora, l’uomo che uscì fuori attraverso la stessa porta di legno che l’aveva fatto entrare, era leggero come una piuma. Salutò il gatto, toccò il vetro del lampione con un dito e il lampione si spense dallo stupore, e fischiettando nel buio obliterò la non-nevicata, che si fermò a due metri dalla strada a leggere stupita il vecchissimo adagio tutto umano: che il paradiso è a portata di mano.
Il finale vuole che dal giorno dopo, ‘a Signura sorridesse inspiegabilmente ogni qual volta ascoltasse una preghiera, una sola in particolare. Il Pater Nostro.

 

Sergio Mangiameli

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Sergio Mangiameli è del ’64, geologo, giornalista pubblicista, interprete naturalistico, vive sull’Etna. Ha pubblicato i racconti “Dall’ulivo alla luna” (Prova d’Autore, 1996) e “Rua di Mezzo sessantasei” (Il Filo, 2008), i romanzi “Aspettando la prima neve” (Rune, 2009), “Dietro a una piuma bianca” (Puntoacapo, 2010), “Sul bordo” (Puntoacapo, 2013), “Come la terra” (Villaggio Maori, 2015, che ha partecipato a MontagnaLibri 2016 del Trento Film Festival), “Quasi inverno” (A&B Editrice, 2018), "La nevicata perfetta" (A&B Editrice, 2020). Ha scritto i testi di “MicroNaturArt – voci dal microcosmo” (Arianna, 2014), esperimento letterario di fotografia scientifica; i racconti di “Ventiquattr’ore – fotografie di finestre e parole intorno” (Puntoacapo, 2016), i cui scatti sono di Lino Cirrincione; e, assieme al vulcanologo Salvo Caffo, “Etna patrimonio dell’umanità, manuale raccontato di vulcanologia e itinerari” (Giuseppe Maimone Editore, 2016), con le illustrazioni di Riccardo La Spina. Ha scritto i testi dei film corti “La corsa mia” e “Idda”, e i monologhi “Questa storia” e “Il gioco infinito”, visibili entrambi su YouTube. Sul portale web Etnalife, scrive racconti etnei per la rubrica letteraria “Storie dell’altro mondo”. “La piuma bianca” è il suo blog sul magazine online SicilyMag. L’esperimento nuovo è “Le colate raccontate” – vulcanologia storica dell’Etna e narrativa surreale insieme, tra esattezza scientifica e finzione letteraria in racconti –, portato in scena col vulcanologo Stefano Branca.
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