La vita alla masseria Tardaria

C’erano due strisce di basolato lavico che arrivavano alla masseria Tardaria, l’ultima comunità prima dei boschi di castagni, che risalivano fino a Monte Po, a Passo Cannelli e al Salto del Cane. Per l’autobus era il capolinea, faceva scendere le persone e compiva la manovra. Scendeva anche la maestra elementare, che prendeva l’autobus nella Piazza principale di Pedara, perché a Tardaria c’era la scuola distaccata. Anzi, c’era una sola classe di ventisette alunni, che comprendeva tutti i livelli, dalla prima alla quinta elementare. Gli alunni erano bambini nati in quelle contrade (Vacchera, Simta, Fossa del Pero, Tardaria), nelle case di malta e pietra, senza acqua corrente, senza gas e senza luce elettrica. E vivevano lì.

La neve non faceva arrivare l’autobus, a volte per un giorno, a volte per una settimana intera, e tanto più durava tanto maggiore era la festa. Cioè, il tempo per andare a caccia di conigli e pernici con i fratelli più grandi, e portare qualcosa di buono a tavola. Le bambine tornavano a casa e aiutavano le madri a pulire le patate, accudire i maiali e le galline, e tenere acceso il forno.

I boschi erano mantenuti benissimo, perché davano legname, che veniva caricato sulle slitte tirate dai muli fino a Tardaria, e qui trasferito sui cassoni dei camion per scenderlo poi a Riposto e venderlo. Nei terrazzamenti tra i filari di castagni, veniva coltivato l’irmanu, la segale, che serviva per fare il pane scuro. E più su, risalendo verso Passo Cannelli, il Salto del Cane o Sciammoro ‘u Lupu, gli uomini rimanevano per settimane intere a fare il carbone pregiato di inestra (ginestra), col fussuni, costruendosi ‘i pagghiari, cioè i bivacchi temporanei fatti di tronchi di castagno, rami, foglie e terra umida, dalla forma conica finale.

Queste famiglie, l’intera comunità montana di questa fascia intorno agli 800-900 metri di quota del versante sud dell’Etna, viveva in autosufficienza in simbiosi con la natura, e soprattutto in armonia con essa, senza eccessi e senza sprechi. Basti pensare che non si buttava niente e tutto veniva riciclato, anche la cenere dei bracieri e dei forni, anche le teste di gallina. Basti pensare che non c’era spazzatura e non esisteva il vandalismo, mostri ai quali oggi siamo tutti più o meno abituati. C’erano tre cose su tutto, alle quali siamo invece pochissimo abituati: il rispetto dei ruoli, la cura delle risorse della natura e la fatica quotidiana. E se ci voltiamo un attimo, scopriamo che questo mondo incredibile è dietro di soli cinquant’anni.

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Sergio Mangiameli è del ’64, geologo, giornalista pubblicista, interprete naturalistico, vive sull’Etna. Ha pubblicato i racconti “Dall’ulivo alla luna” (Prova d’Autore, 1996) e “Rua di Mezzo sessantasei” (Il Filo, 2008), i romanzi “Aspettando la prima neve” (Rune, 2009), “Dietro a una piuma bianca” (Puntoacapo, 2010), “Sul bordo” (Puntoacapo, 2013), “Come la terra” (Villaggio Maori, 2015, che ha partecipato a MontagnaLibri 2016 del Trento Film Festival), “Quasi inverno” (A&B Editrice, 2018), "La nevicata perfetta" (A&B Editrice, 2020). Ha scritto i testi di “MicroNaturArt – voci dal microcosmo” (Arianna, 2014), esperimento letterario di fotografia scientifica; i racconti di “Ventiquattr’ore – fotografie di finestre e parole intorno” (Puntoacapo, 2016), i cui scatti sono di Lino Cirrincione; e, assieme al vulcanologo Salvo Caffo, “Etna patrimonio dell’umanità, manuale raccontato di vulcanologia e itinerari” (Giuseppe Maimone Editore, 2016), con le illustrazioni di Riccardo La Spina. Ha scritto i testi dei film corti “La corsa mia” e “Idda”, e i monologhi “Questa storia” e “Il gioco infinito”, visibili entrambi su YouTube. Sul portale web Etnalife, scrive racconti etnei per la rubrica letteraria “Storie dell’altro mondo”. “La piuma bianca” è il suo blog sul magazine online SicilyMag. L’esperimento nuovo è “Le colate raccontate” – vulcanologia storica dell’Etna e narrativa surreale insieme, tra esattezza scientifica e finzione letteraria in racconti –, portato in scena col vulcanologo Stefano Branca.
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