Corre il coniglio (seconda parte)

Seconda parte (Racconto tratto da “Rua di Mezzo Sessantasei” – Il Filo ed.)

(Leggi la prima parte)

Lui si fermò, capì che non lo stavo seguendo. Si tolse il fucile dalla spalla e si voltò. Il tono era diverso, non minacciava più ma era ancora molto arrabbiato.
«Io aspetto una settimana per andare a caccia, per sparare ai conigli. Secondo te, che stavamo a fare lì, accovacciati in silenzio? Cosa aspettavamo? Su, cosa aspettavamo?!».
Stavo zitto.
«Il coniglio che hai visto tu aspettavamo».
«Per sparargli?».
«Certo, se no perché? Per guardarlo? E allora che ho portato a fare questo fucile? Secondo te come li ammazzo i conigli che porto a casa? A pietrate?».
Sparare al coniglio, ammazzarlo. Ricordai il botto del fucile, lo sparo, ecco cos’era! Lui aveva sparato al coniglio, a quel coniglio che avevo visto. Ero preoccupatissimo per la sorte del coniglio. Corsi indietro.
«Dove vai?».
«Dal coniglio!».
«Ma quale coniglio, chissà dove diavolo sarà adesso».
Mi fermai e gli domandai da lontano, avevo sette anni «ma tu non l’hai ammazzato, vero?».
«Certo che no, altrimenti l’avrei preso, cretino».
Tirai un sospiro di sollievo e m’incamminai verso di lui, ma a debita distanza. Non dissi più una parola fino a casa. Arrivammo in cucina, silenziosi.

«Già di ritorno?» fece mamma, ma vide le facce scure. Io filai via, mentre sentivo che le raccontava cosa era successo. Allora mamma mi raggiunse, si avvicinò e si mise a sorridere dandomi un colpetto sulla gamba «grande cacciatore!».
«Papà mi ha detto che non vuole che vada più a caccia con lui. Ma adesso che ho capito, sono io che non voglio più andare a caccia con lui. Mi ha preso in giro e sono contento che quel coniglio sia scappato. Almeno oggi non mi sono svegliato presto per niente».
Alla fine di questo pensiero, mi accorsi che non ero più arrabbiato. Anzi, ero sollevato. A pranzo, dissi a mio padre che volevo imparare a sparare. Lui mi guardò stranito, stava bagnando il pane nell’olio delle acciughe.
«E come mai?» chiese.
«Perché voglio che tu me l’insegni».

Comprò un piccolo fucile ad aria compressa, Arizona Kid c’era scritto sul calcio in legno chiaro. La canna e tutto il testo erano cromati. Il fucile si caricava anche a piombini o a puntini ciuffati colorati, per il tiro a segno. E fu proprio il tiro a segno che imparai. Imparai a tenere il fucile, a traguardare, a mirare, a premere il grilletto. E a caricarlo. Vedevo che lui non se lo faceva dire due volte «andiamo a sparare, papà».
Scendevamo nel campo da tennis, mettevamo delle latte in fondo vicino al muro e facevamo a gara al meglio dei cinque e dei dieci colpi. A volte scendeva anche mamma. All’inizio non c’era partita, poi però cominciai a uguagliare mamma, poi a superarla. Infine sfidavo solo lui. Fino a quando vinsi. Fino a quando arrivai a batterlo sempre, soprattutto con i caricatori vuoti di plastica della sua carabina, che mettevo sulla latta. Indietreggiavo la linea di sparo, così era ancora più difficile centrare il bersaglio. Io ci vedevo benissimo e avevo le braccia ferme, lui no. Così io vincevo, lui no. Adesso mi sentivo pronto per andare a caccia e sparare ai cacciatori. Ma non dissi niente a nessuno. Fu il destino a fermarmi.

Un pomeriggio, mentre stavamo armeggiando col mio e col suo fucile, squillò il telefono. Eravamo sui gradini della veranda. Arizona Kid era aperto. Lui si alzò per andare a rispondere e mi disse di non premere il grilletto. Avevo forse undici anni. Rispose al telefono. Premetti il grilletto. Non sentii nulla. Solo che non riuscivo a staccare la mano sinistra dal fucile. E vidi che il dito medio era intrappolato come in una tagliola, tra la canna e il cane.
Urlai. Urlai. Urlai per il terrore. Mio padre corse subito, aprì il fucile e mi fece mettere il dito sotto l’acqua e vidi che l’unghia non c’era più. Con il pollice e l’indice della mano destra, tenevo strettissimo il dito ferito. Cominciò a uscire tanto di quel sangue che non si vedeva più la falangetta. E cominciò il dolore. Sandra e Valeria piansero a dirotto, temendo che potessi perdere il dito. Sandra si accovacciò dietro all’angolo della cucina e pregò Gesù per non farmi perdere il dito. Avrà avuto sette anni e mezzo. Il dito non lo persi. La guarigione fu lunga, poi l’unghia è ricresciuta anche se la falangetta è rimasta storta e la sensibilità in uno spicchio non ce l’ho più. Quel che persi, invece, fu la voglia di sparare. E mia madre proibì a mio padre di andare a caccia, perché se non sapeva badare a un bambino, non sapeva badare a se stesso.

Nuova regola di Rua di Mezzo sessantasei: nessuna arma. Avevo il dito grosso e incerottato, ma ero contento. Il coniglio stava correndo.

Leggi altre: Storie dell’altro mondo

Sergio Mangiameli è del ’64, geologo, giornalista pubblicista, interprete naturalistico, vive sull’Etna. Ha pubblicato i racconti “Dall’ulivo alla luna” (Prova d’Autore, 1996) e “Rua di Mezzo sessantasei” (Il Filo, 2008), i romanzi “Aspettando la prima neve” (Rune, 2009), “Dietro a una piuma bianca” (Puntoacapo, 2010), “Sul bordo” (Puntoacapo, 2013), “Come la terra” (Villaggio Maori, 2015, che ha partecipato a MontagnaLibri 2016 del Trento Film Festival), “Quasi inverno” (A&B Editrice, 2018), "La nevicata perfetta" (A&B Editrice, 2020). Ha scritto i testi di “MicroNaturArt – voci dal microcosmo” (Arianna, 2014), esperimento letterario di fotografia scientifica; i racconti di “Ventiquattr’ore – fotografie di finestre e parole intorno” (Puntoacapo, 2016), i cui scatti sono di Lino Cirrincione; e, assieme al vulcanologo Salvo Caffo, “Etna patrimonio dell’umanità, manuale raccontato di vulcanologia e itinerari” (Giuseppe Maimone Editore, 2016), con le illustrazioni di Riccardo La Spina. Ha scritto i testi dei film corti “La corsa mia” e “Idda”, e i monologhi “Questa storia” e “Il gioco infinito”, visibili entrambi su YouTube. Sul portale web Etnalife, scrive racconti etnei per la rubrica letteraria “Storie dell’altro mondo”. “La piuma bianca” è il suo blog sul magazine online SicilyMag. L’esperimento nuovo è “Le colate raccontate” – vulcanologia storica dell’Etna e narrativa surreale insieme, tra esattezza scientifica e finzione letteraria in racconti –, portato in scena col vulcanologo Stefano Branca.
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