Cena al castello, giugno 1669

Racconto ispirato dalla conferenza tenuta a Nicolosi il 20 agosto scorso dal vulcanologo Stefano Branca (lo scienziato ha esposto in italiano la ricerca “Impacts of the 1669 eruption and the 1693 earthquakes on the Etna Region – Eastern Sicily, Italy: an example of recovery and response of a small area to extreme events” di S. Branca, R. Azzaro, E. De Beni, D. Chester e A. Duncan, pubblicata su Journal of Volcanology and Geothermal Research 303 – 2015), e liberamente tratto da fatti realmente accaduti. Tuttavia, la ricostruzione, l’allocazione della storia, i dialoghi e i personaggi minori sono frutto di invenzione narrativa.

Don Stefano serrò i denti e col pugno destro colpì il tavolo di legno di castagno, costruito dai sudditi e preso dai boschi della Barriera.
“Porca buttana! Bel regalo mi ha fatto Francesco (1)! Giusto adesso, con questa stronza di eruzione dei Monti della Ruina (2), si è ricordato di me! Non poteva continuare a dimenticarsi? E ora che faccio? Dove minchia la metto questa lava a Catania, che non vuol saperne di fermarsi? Avevo chiesto a Diego (3) di darmi una mano, ma quello se non vede il pelo, non scugna! Ma vaffanculo, Francesco viceré de me cugghiuna!”.
E tracannò il secondo boccale pieno di vino rosso di Trecastagni, una delizia pura.

Si asciugò la bocca col dorso della mano destra e strizzò gli occhi furenti.
“Dove le prendo adesso duecento femmine per quei montanari, ora che in città ci sono quattro vecchi decrepiti attaccati ai loro palazzi? Ma staminchia che mi muovo da qui. Catania non si tocca, rimane dov’è. Cascasse il mondo, io non gliela do vinta né a Vincenzo né a Filippo né a quei paraculo dei parrini, che vogliono spostare la città verso Aci (4). Catania è Catania e non si discute. Dovessi crepare qui con le brache infiammate di lava!”.
E tracannò per la terza volta tutto d’un fiato il nettare rubizzo migliore della Sicilia intera, quello che re Carlo aveva definito come “El sangre de Dios”.

Attorno al Castello Ursino la notte era tersa, avvolta da un’aria così leggera che i bagliori della colata al Bastione di San Giorgio erano uguali al Grande Carro, alto appena a destra del foruncolo dal quale continuava a venir fuori materiale incandescente, che però aveva già seppellito La Guardia, Malpasso, S. Pietro, San Giovanni e Camporotondo. Sembrava la cosa più naturale del mondo, questa serata catanese di inizio di giugno del 1669: il discreto silenzio della natura nel suo irrefrenabile cambiamento.

“Vuoi vedere che faremo la storia?” – disse Giovanni, suo cugino. Si protese verso la finestra, da dove entrava una voria sottile, quasi tiepida. Diede uno sguardo fuori dal castello, chinò la testa verso il basso e fece una piccola risata.
“Che vuoi dire?” – alzò lo sguardo don Stefano.
“Voglio dire che già il castello non è più su un’isola, perché la terra è arrivata e ha spostato il mare. E dimmi tu se ti ricordi qualcosa di tanto pazzesco… Poi a vederla adesso, la colata, sembra si stia mangiando il castello. E’ qua sotto, sta salendo lentamente, ma sta salendo. Credo che la garitta, domani sarà mangiata, e dopo anche il castello …”
“Non dire minchiate! Il castello non lo mangerà nessun cazzo di colata! Anzi, sai che ti dico? Che m’è venuta fame”.

Don Stefano batté le mani e urlò scandendo: “Carmelo! Carmelo!!”
“Dica, Signore…” arrivò ansimando il servo.
“Il crasto con le patate, per due. E altro vino. Subito”.
“Subito, Signore”.
La cena in cucina era già pronta e in men che non si dica, fu portata al tavolo dei signori nella sala con vista sulla città di Catania.
“Buono questo crasto…”, masticò con gusto Giovanni.
“Sì, è vero, a Bronte lo sanno fare come si comanda. Mi hai fatto ricordare, Giovanni, che domani dovrò dare ordini di iniziare a fare la strada per aprire verso Paternò, non voglio rischiare di mangiare solo pesce (5), lo odio…”.
“Ti ci vedo, a pulire le sogliole come i parrini…” – lo provocò con un perfido sorriso.
“Ma vaffanculo anche tu!” – addentò con rabbia un pezzo ricco di rosmarino e pepe nero.
Quando ne assaporò il gusto, calmato, riprese: “Che dicevi della colata? Dove si trova adesso?”.
“Qua sotto… Mi passi il sale?”.

Quella notte, don Stefano dormì profondamente. Giovanni, meno sbronzo, dopo cena passò dalle cucine e sbrigò una pratica fisiologica con una sguattera, appoggiata al davanzale di una finestra che dava proprio sull’eruzione.
La colata si fermò il giorno dopo, cingendo il Castello Ursino senza distruggerlo, sotto un Sole splendente d’estate arrivata. Le brache di don Riggio furono salve e anche i suoi gioielli di famiglia. Chi vinse, fate voi. La testardaggine della follia umana o il vulcano, che poi comunque da quella volta cambiò per sempre il proprio carattere?


 

1 – Francesco Fernandez de La Cueva, duca di Albuquerque, viceré in Sicilia di Carlo II di Spagna, nomina don Stefano Riggio quale responsabile unico dell’emergenza eruttiva dell’Etna per la città di Catania, nella primavera del 1669, a seguito della colata partita a marzo dai Monti Rossi sopra Nicolosi.

2– Inizialmente i Monti Rossi furono denominati i Monti della Ruina (della Rovina).

3 – Diego Pappalardo, signore di Pedara, si era già distinto nelle settimane precedenti, quando il fronte lavico si trovava ancora nei pressi di Nicolosi, con una schiera di 200 prodi al suo comando, nel primo tentativo sebbene non riuscito di deviazione di una colata. E’ privo di fondamento, tuttavia, il fatto che Stefano Riggio abbia chiesto aiuto a don Diego per Catania; ed è un falso narrativo che questi gli abbia risposto di volere in cambio 200 donne per i suoi uomini.

4 – Con la città assediata dalla colata, furono diversi i signori possidenti a pressare Riggio affinché decidesse lo spostamento amministrativo e sociale di Catania in altro sito più a nord-est, lontano dal flusso lavico, che arrivava invece da ovest nord-ovest.

5 – A causa della colata, Catania restò isolata dal resto della Sicilia occidentale per qualche tempo.

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Sergio Mangiameli è del ’64, geologo, giornalista pubblicista, interprete naturalistico, vive sull’Etna. Ha pubblicato i racconti “Dall’ulivo alla luna” (Prova d’Autore, 1996) e “Rua di Mezzo sessantasei” (Il Filo, 2008), i romanzi “Aspettando la prima neve” (Rune, 2009), “Dietro a una piuma bianca” (Puntoacapo, 2010), “Sul bordo” (Puntoacapo, 2013), “Come la terra” (Villaggio Maori, 2015, che ha partecipato a MontagnaLibri 2016 del Trento Film Festival), “Quasi inverno” (A&B Editrice, 2018), "La nevicata perfetta" (A&B Editrice, 2020). Ha scritto i testi di “MicroNaturArt – voci dal microcosmo” (Arianna, 2014), esperimento letterario di fotografia scientifica; i racconti di “Ventiquattr’ore – fotografie di finestre e parole intorno” (Puntoacapo, 2016), i cui scatti sono di Lino Cirrincione; e, assieme al vulcanologo Salvo Caffo, “Etna patrimonio dell’umanità, manuale raccontato di vulcanologia e itinerari” (Giuseppe Maimone Editore, 2016), con le illustrazioni di Riccardo La Spina. Ha scritto i testi dei film corti “La corsa mia” e “Idda”, e i monologhi “Questa storia” e “Il gioco infinito”, visibili entrambi su YouTube. Sul portale web Etnalife, scrive racconti etnei per la rubrica letteraria “Storie dell’altro mondo”. “La piuma bianca” è il suo blog sul magazine online SicilyMag. L’esperimento nuovo è “Le colate raccontate” – vulcanologia storica dell’Etna e narrativa surreale insieme, tra esattezza scientifica e finzione letteraria in racconti –, portato in scena col vulcanologo Stefano Branca.
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